Olimpia Milano: 2023, la storia dello scudetto della terza storica stella

Olimpia Milano: 2023, la storia dello scudetto della terza storica stella

Non è stata la stagione sognata, ma è finita come tale

Il finale è stato bellissimo. Nessuno vorrebbe mai mettere la propria stagione in palio in una singola partita, il classico “All or Nothing”, ma nella storia dell’Olimpia è scritto nel destino. Quale altra squadra ha giocato 12 partite equivalenti ad una finale? È successo cinque volte persino quando ancora i playoff non esistevano. Ma in fondo si gioca per questo, si gioca per partite come quella del 23 giugno in Gara 7. La settima partita è anche un tributo alla forza dell’avversario. Quando lotti per sei partite e il punteggio è in bilico, hai usato tutto quello che avevi e così hanno fatto gli avversari e la Virtus Bologna è stata un grande avversario. Vincere Gara 7, quando succede, è impagabile. Averlo fatto esprimendo il proprio DNA all’ennesima potenza ovvero con una difesa prodigiosa, riuscendo ad andare oltre le problematiche di giornata (i due falli che hanno impedito a Nicolò Melli di giocare il primo tempo), è stato come convalidare la forza mentale di un gruppo. E come ha detto Coach Ettore Messina alla fine che l’MVP sia stato Gigi Datome è perfetto. Il grande campione che emerge quando conta, senza mai perdere l’autocontrollo. In Gara 7 ha segnato i primi due canestri, ha centrato i primi sei tiri, ha messo la tripla più importante, ha stoppato una volta l’avversario più logorante della serie, Marco Belinelli, a momenti disarmante nel modo di fare canestro, ha risposto ad un taglio al sopracciglio (punti di sutura in panchina) e un dito che è stato riportato nella sua posizione naturale sempre in panchina. Dolore, sacrificio, vittoria. Gigi Datome è un “culture guy”, un leader silenzioso, che ha combattuto tutta la stagione contro ogni tipo di vicissitudine, incluso un virus che l’ha fatto fuori per più tempo di quanto si sarebbe immaginato. Datome però è un campione dentro e quando il gioco si fa duro è pronto a giocare. In un certo senso lui rappresenta la quintessenza del giocatore che ha “presenza”.

La stagione 2022/23 era cominciata in un’atmosfera hollywoodiana, con allenamenti che facevano registrare presenze degne di una finale NBA. Mike Brown, che è stato poi allenatore dell’anno ai Sacramento Kings, è passato talvolta inosservato. Normale quando un giorno l’attrazione principale è Gregg Popovich, l’allenatore che ha vinto cinque titoli NBA a San Antonio, e quello dopo Will Shields, un Hall of Famer del football che attirava gli sguardi dei giocatori americani come farebbe qualsiasi icona dello sport. C’erano gli Europei al piano di sopra e tanti ospiti, visitatori, curiosi. Scene surreali. Popovich che chiede a Mario Fioretti lumi su una difesa che raddoppiava sul post basso dal fondo. Cosa puoi chiedere di più? Persino quando gli Europei sono finiti e la squadra è tornata a lavorare nella normalità non sono mancate le eccezioni. Una mattina, si è presentato in palestra Chuck Jura, che all’Olimpia non ha mai giocato però è stato una star a Milano negli anni ’70. Per Shavon Shields che veniva dal suo stesso college, Nebraska, è stata un’altra esperienza indimenticabile. Poi persino Nicolò Melli si è trovato a spiegare a Jura in persona che sì, insomma, la mamma è di Lincoln, Nebraska. Un mondo veramente piccolo, concentrato in pochi metri quadrati. Quei metri quadrati in cui per mesi l’Olimpia, che in prestagione era apparsa subito brillante e aveva vinto nettamente il torneo di Atene, ha cercato sé stessa prima ancora che le contromisure per battere gli avversari.

Non è stata la stagione sognata, ma è finita come tale. Superfluo ripercorrerne i momenti, la concentrazione di infortuni nello stesso ruolo, le difficoltà di adattamento di tanti giocatori nuovi, adattamento ad una realtà nuova, ad una cultura, quella costruita in questi anni da Ettore Messina, supportato poi da Sergio Rodriguez, Kyle Hines, Gigi Datome e infine Nicolò Melli, oltre a Shavon Shields. Sono successe tante cose, alcune imprevedibili, altre sfortunate, ma tutto è cominciato realmente la notte di Monaco di Baviera.

Quella sera l’Olimpia vinse la terza trasferta consecutiva di EuroLeague. In mezzo c’era stato il passo falso dopo un tempo supplementare (dato da non dimenticare perché nell’arco della stagione in overtime sono arrivate cinque sconfitte su cinque e una è costata la finale di Supercoppa) interno con l’Alba Berlino, ma anche le vittorie di Villeurbanne e la monumentale partita di Belgrado contro una squadra che sarebbe arrivata ad un passo dalle Final Four, in un’atmosfera descrivibile solo a chi l’ha vissuta. Quella sera, in Germania, Kevin Pangos – che aveva segnato una tripla cruciale a Villeurbanne e un lay-up decisivo a Belgrado – distribuì dieci assist, l’ultimo per la tripla dall’angolo di Billy Baron di fatto determinò la vittoria sul Bayern. L’Olimpia era praticamente in testa, dannate le assenze, gli Europei che avevano privato la squadra di sette elementi, ed esprimeva solo buone sensazioni. Ma in quella partita, Shavon Shields si procurò l’infortunio che avrebbe condizionato la sua stagione e messo una pietra tombale sulle chance dell’Olimpia. Quella vittoria di Monaco fu seguita da nove sconfitte consecutive in EuroLeague. Un filotto dal quale, a quei livelli, non ti puoi riprendere.

Ci sono stati momenti di scoramento, ma c’è stata anche una feroce capacità di mantenere dritta la barra del timone, di continuare ad andare avanti nel mare in tempesta, cambiando quintetto, trovando assetti migliorativi come quello conclusivo in campionato, con Johannes Voigtmann da ala forte e Nicolò Melli da centro. Quando capitava qualcosa che sembrava buttarla giù, la squadra si tirava su, e viceversa. Ad un certo punto, con sei vittorie di fila, successive all’arrivo di Shabazz Napier, il ritorno di Shavon Shields e quello di Kevin Pangos, l’Olimpia ha persino dato la sensazione di poter piazzare una rimonta clamorosa e acciuffare, non si sa come, l’ottavo posto in EuroLeague. Non fai nulla del genere, se non hai qualcosa dentro. Qualcosa di solido. Cos’era questo qualcosa lo si è visto nei playoff. O forse lo si è visto in regular season, nel campionato italiano, quando l’Olimpia con cinque successi consecutivi si è messa nelle condizioni di poter approfittare di un passo falso avversario. Quando questo passo falso è capitato, nella sera in cui l’Olimpia vinse a Tortona, si è concretizzato il primo posto.

Il post-partita di Tortona (in realtà eravamo a Casale Monferrato) va raccontato perché nell’arco di una stagione ci sono sempre momenti in cui il web ti rovescia addosso risultati che ti aspetti o non ti aspetti, ma comunque ti condizionano, cambiano le prospettive. L’Olimpia aveva appena vinto una partita dura, risolta in parte da una inaspettata stoppata di Shabazz Napier su Semaj Christon. La partita era finita da qualche minuto. Nello stesso momento, la Virtus stava vincendo a Treviso per conservare il proprio primato in classifica. La partita, vista dallo schermo di un cellulare, sembrava finita, archiviata, per cui – tipico di ogni spogliatoio – l’attenzione era passata all’analisi della classifica nel tentativo velleitario di identificare con una settimana di anticipo l’avversario del primo turno dei playoff. Poi il colpo di scena. A Treviso è successo qualcosa, Adrian Banks ha segnato, ha subito fallo, ha convertito il tiro libero, ma c’è stato un fallo tecnico e comunque è stato sbagliato il tiro libero e poi ha sbagliato il tiro finale anche Belinelli. Quindi Treviso ha vinto, quindi tutto quello che era stato analizzato andava cestinato. L’Olimpia era prima. Salita sul pullman per tornare a casa, al casello di Casale, la Polizia aveva anche piazzato un posto di blocco. Incuranti del logo sul pullman che non lasciava dubbi su chi vi fosse all’interno, la pattuglia pretese comunque lo stop. Cosa sarà successo? Attimi di vita quotidiana: “Scusate – dice un agente – sono un vostro tifoso. Coach, possiamo farci una foto?”.

Avere il vantaggio del fattore campo, conquistato quella sera e poi confermato una settimana dopo battendo Sassari in casa, non sempre vale lo scudetto, anzi. Ma è meglio averlo a favore che non averlo. Nel 2022, l’Olimpia non l’aveva ma aveva vinto Gara 1 di finale a Bologna di un’inezia e su quella, e poi i 12.600 del Mediolanum Forum, aveva costruito lo scudetto. Giocare in casa conta. Non è una garanzia. Ma conta. L’Olimpia non ha avuto il vantaggio del fattore campo in finale solo perché ha vinto a Tortona (dove Bologna era caduta) e perché la Virtus ha perso a Treviso. L’ha avuto perché nel girone di andata ha vinto con un margine superiore ai venti punti proprio a Bologna. La differenza canestri, che nel finale di stagione è decisiva, si costruisce fin dall’inizio del torneo, in tempi non sospetti. Quella sera, a Bologna, Brandon Davies segnò 23 punti e diede tanto alla squadra anche Naz Mitrou-Long. È bello a fine stagione rilevare che è stato il percorso a condurre alla vittoria e durante il percorso sono stati utili tutti. Davies fu strepitoso quella sera. Mitrou-Long segnò una tripla cruciale. Qualche zampata la vibrò anche Tim Luwawu-Cabarrot.

È inutile adesso negare quanto abbia inciso sulla stagione l’infortunio di Shavon Shields o abbia pesato l’arrivo di Shabazz Napier. Shields, nella stagione precedente prima di infortunarsi alla mano nel famoso contatto con Rudy Fernandez, era un legittimo candidato MVP di EuroLeague, poi era diventato il quinto MVP dei playoff nella storia dell’Olimpia dopo Rolando Blackman, Alessandro Gentile, Rakim Sanders e Andrew Goudelock. Quest’anno il nuovo infortunio ha privato la squadra di uno dei migliori “two-way player” d’Europa, raro esempio di giocatore cruciale sui due lati del campo. Shabazz Napier è arrivato quando ha capito che non sarebbe tornato nella NBA, almeno non subito, e l’Olimpia aveva perso la speranza che Kevin Pangos potesse tornare nei tempi auspicati.

Napier si è presentato con la sua taglia fisica limitata, ma un grande cuore, straripante personalità e un contenitore nero dal quale non si separa mai. Sopra ha incollato un adesivo e in pieno stile “Space Jam” ha scritto sopra “Shabazz Secret Stuff”. Dentro, in realtà c’è solo acqua naturale, alla temperatura giusta, per essere idratato perfettamente in ogni attimo della sua giornata. Quando sei alto poco più di 1.80 e non ti scambieranno mai per un culturista, ogni dettaglio è vitale. Napier l’ha capito molti anni fa e gli ha permesso di vincere due titoli NCAA, giocare nella NBA e adesso… La finale è stata durissima per lui, perché era regolarmente il più piccolo giocatore in campo, “ma io cerco di rimediare con l’intelligenza, cercando di capire il gioco meglio dell’avversario, studiando il video. Non sono mai il più alto, il più grosso, il più bravoe nemmeno il più veloce”. Ma quando ti sguinzagliano dietro due die migliori difensori sulla palla d’Europa, 15 centimetri più alti, come Hackett e Pajola, tutto diventa indubbiamente più difficile. Napier ha avuto il merito di non smarrirsi, non uscire dalla serie, accettare lo scontro. In Gara 7 ha segnato cinque punti consecutivi vitali nel quarto periodo.

Giocare contro avversari più grossi e difese fisiche, attente, è il destino di Billy Baron. Figlio di un ex playmaker di St. Bonaventure che poi si è trasformato in un eccellente allenatore a livello collegiale (Jim Baron da Brooklyn), come il fratello maggiore, Billy ha costruito la sua carriera sul tiro da fuori. “Mi piacciono i tiratori, alla fine nel basket devi fare canestro”, ha detto il padre, adesso in pensione, un giorno osservando l’allenamento del figlio al Mediolanum Forum. Billy è figlio di un allenatore, si vede, anche nella comprensione del gioco. Ma non sarebbe arrivato fino qui senza un tiro devastante, il tiro delle grandi rimonte, delle grandi vittorie. Le cifre di Baron sono mostruose. Sostanzialmente, è stato l’unico giocatore del campionato italiano oltre il 60% da due, oltre il 40% da tre e oltre il 90% nei tiri liberi. Il suo tiro da tre è stato per tutto l’anno – anche in EuroLeague – il vero termometro della squadra: quando l’Olimpia ha vinto lui ha tirato con il 49.6%, quando ha perso con il 32.7%.

Nicolò Melli in due anni a Milano ha giocato 146 partite ufficiali, per 3.522 minuti che fanno quasi sessanta ore spese sul campo giocando. Dire che ha dato tutto alla causa è riduttivo: il Capitano, per la prima volta da solo dopo la partenza di Chacho Rodriguez, è la versione moderna di quello che una volta era Dino Meneghin, un giocatore totalmente disinteressato alle cifre individuali, che sono solo una conseguenza delle vittorie, non il contrario. Melli gioca da ala forte o da centro, come vuole l’allenatore, si spreme a marcare chiunque, porta blocchi, corre lungo il campo, stoppa, segna quando serve. In Gara 2 della finale ha segnato i tiri liberi decisivi, in Gara 5 ha annichilito uno dei migliori giocatori del proprio ruolo, Tornike Shengelia. La faccia da bravo ragazzo, i modi educati, frutto di una famiglia per bene, la passione per i libri, il sorriso in cui si scioglie quando vede la piccola Matilde, nascondono solo in parte lo spirito di uno “streetfighter” che non ha paura di mettersi in mezzo alla tempesta per uscirne vincitore. Melli è questo. La squadra aveva bisogno di rimbalzi e lui ne ha presi come se non ci fosse un domani. In sostanza le cifre che contano sono quelle che gradualmente lo stanno spedendo nella storia del club. Un po’ come, a livelli più generali, sta succedendo al grande Kyle Hines.

Secondo i medici, un qualsiasi giocatore con una soglia di sopportazione del dolore buona, si sarebbe fermato per settimane dopo il problema alla spalla di Gara 4. Non Kyle Hines. Kyle Hines se sta in piedi gioca. Quest’anno era già successo in una partita di EuroLeague ad Atene. Si era svegliato la mattina scoprendo di avere la mano gonfia come un pallone. Nessuno avrebbe giocato. Non Kyle Hines. Quando si parla di rispetto, si intende questo. Hines non è necessariamente il leader che parla, si agita, urla. Hines sussurra e guida con l’esempio. La sua presenza spesso è sufficiente per mantenere l’ordine. Nessuno vuole deludere Kyle Hines e nessuno è mai stato deluso da Kyle Hines. La cultura di un club, di un progetto è dettata dai “culture guys”. Hines è questo. “Se posso scegliere – ha detto Coach Messina – scelgo di giocare sempre con Hines. Per me è scontato, semplice, per altri non so, ma qui la storia, certi valori valgono più di due canestri e un rimbalzo”. E la sua presenza guida altri giocatori sullo stesso binario, come Devon Hall.

Hall sta a questa squadra come una via di mezzo tra Hines e Melli in termini caratteriali. Hall è stato il giocatore più utilizzato in EuroLeague, perché Coach Messina di lui si fida. Non c’è un complimento migliore che puoi fare ad un giocatore. Ha avuto una stagione difficile, perché inizialmente è stato l’unico dei piccoli risparmiato dal “bug” degli infortuni. Pangos è stato fuori e lui ha fatto il playmaker. Poi è stato fuori Mitrou-Long e ha fatto il playmaker. Poi è stato fuori Billy Baron e ha fatto quello che serviva. Infine, si è fatto male anche lui. Hall difende, gioca dove gli viene chiesto di giocare trasformando i difetti in pregi. Quando durante i playoff ha saltato tre partite per turnover non ha fatto una piega, ha continuato ad allenarsi e quando è stato richiamato ha risposto. Non c’erano dubbi che l’avrebbe fatto. Che non sia stato considerato come miglior difensore del campionato è un’ingiustizia concettuale. I migliori difensori stoppano come Kyle Hines, rubano palla come faceva Mike D’Antoni, marcano tanti giocatori di ruoli differenti come Nicolò Melli. E come Devon Hall. Non cercate il valore di Hall nelle statistiche, ma nel contributo che offre alla causa tutti i giorni. Anche in allenamento, anche nell’esempio, anche nella disciplina che gli deriva, anche qui, dall’ottimo ambiente familiare in cui è cresciuto.

Pippo Ricci non è diverso. Il suo ruolo all’interno della squadra dipende dai momenti e dalle esigenze. Può essere un’ala forte e qualche volta può essere un’ala piccola. Può aiutare con un tiro da tre punti oppure con quella anomala capacità di capire dove finirà il rimbalzo, quella sorprendente abilità di saltare tante volte e smanacciare, toccare la palla, tenerla viva quando non è sotto controllo. Ricci non è una stella, ma su adattamento e sacrificio ha costruito una carriera e soprattutto tante vittorie. Ricci ha vinto tutti gli ultimi tre scudetti, ha dato un significato diverso alla rivalità Milano-Bologna perché lui è stato sempre dalla parte dei vincitori.

Non c’è dubbio che una delle chiavi della stagione sia stato Johannes Voigtmann. Nel corso di una lunga regular season in cui ha avuto un ruolo marginale, in cui sembrava sfiduciato e titubante, Voigtmann ha giocato almeno venti minuti cinque volte. Ma è successo undici volte nei soli playoff, quando il suo ruolo – oltre l’etichetta di starter – è lievitato. Voigtmann – che, come Baron, tira oltre il 60% da due e oltre il 40% da tre, non lo eguaglia solo dalla lunetta – ha dato una nuova dimensione al gioco dell’Olimpia, introducendo un lungo pericoloso nel tiro da fuori e quindi in grado di aprire il campo, di fare coppia con Melli difendendo poi sul centro e supportando il Capitano nella battaglia dei rimbalzi. L’aspetto sottovalutato del suo gioco è il passaggio. Non solo quelle fucilate da canestro a canestro, degne di un quarterback, che l’hanno proiettato in tanti highlights. Ha finito con 2.5 assist di media nei playoff, 3.0 nella serie finale. Anche Voigtmann è un tipo silenzioso, parla tedesco con Melli e inglese con tutti gli altri. Viene dalla Germania Est, anche se è nato dopo la caduta del muro, e il suo primo amore era stato la pallamano. Il carattere schivo probabilmente non l’ha aiutato all’inizio, quando ha sofferto, ma anche lui è stato la fotografia della stagione. Non si è lasciato soverchiare dalle difficoltà. Le ha superate ed è arrivato in fondo.

Vale anche, con un altro ruolo, per Paul Biligha, ovvero l’arte di farsi trovare pronto quando serve com’è successo in Gara 5, tra falli e i problemi fisici di Hines. Nelle squadre come l’Olimpia rispondere presente anche dopo lunghi minuti trascorsi in panchina se non intere partite è essenziale. Anche Tommaso Baldasso, come era successo l’anno scorso, è riuscito a farlo. Non sempre succede. Ma in ogni squadra è essenziale che chi non gioca sia di supporto a chi gioca come hanno fatto in allenamento Davide Alviti, Deshaun Thomas e Naz Mitrou-Long, comunque utile nella prima parte di stagione. Kevin Pangos è stato vittima degli infortuni. Quando è tornato sano, c’era Shabazz Napier al suo posto e ha dovuto fare un passo indietro. Com’è successo a Brandon Davies. Il suo è un caso particolare perché alla fine della regular season era tra i nominati per il titolo di MVP. Ma per ragioni di equilibri tattici, è rimasto fuori dalla squadra dei playoff. Stefano Tonut userà questa stagione per il suo futuro. A tratti, ha fatto quello che doveva, soprattutto quand’era fuori Shields: difesa, palle rubate, uno contro uno, contropiede. Altre volte, è rimasto fuori dalla rotazione. L’adattamento non è mai facile, ma lui è riuscito ad essere utile anche con pochi possessi, anche entrando per una sola difesa, alla fine di un quarto.

Alla fine, com’è stato l’anno precedente, il gruppo ha prevalso. Il gruppo ovvero la capacità di tutti di accettare un ruolo, qualunque fosse, anche a tratti quello del tifoso, del supporter, del giocatore pronto solo in caso di emergenza. Gli scudetti si vincono così. Gara 7 è un incubo di emozioni. Vincerla però è bellissimo.