Nikola Mirotic: Avevo neanche 19 anni, quando Coach Messina mi disse che aveva bisogno di me

Nikola Mirotic: Avevo neanche 19 anni, quando Coach Messina mi disse che aveva bisogno di me

Il numero 33 è a Milano. Nikola Mirotic ha una bellissima storia da raccontare, dal sogno di diventare un centravanti d’area al colpo di fulmine per il basket

Il numero 33 è a Milano. Nikola Mirotic ha una bellissima storia da raccontare, dal sogno di diventare un centravanti d’area al colpo di fulmine per il basket che l’ha portato in tempo da record del mondo a passare dal nulla alla cantera del Real Madrid. Poi conobbe Ettore Messina che lo fece debuttare, gli affidò un ruolo perché l’aveva visto allenarsi duramente, preferendolo, lui che era diciottenne, al leggendario Jorge Garbajosa. In EuroLeague, Mirotic fece il proprio debutto a Siena. Il Real Madrid vinse quella partita in rimonta. Nel primo tempo andò sotto in doppia cifra, nel terzo periodo rimontò e nel quarto esplose. Mirotic segnò 13 punti in quel periodo. In una serata si trasformò da debuttante, che apprezzava i suoi primi punti europei, a rivelazione. Da quel momento, non si è più fermato.

Nikola Mirotic, è vero che sognavi di diventare un grande calciatore?

“Sì, è vero, ho cominciato a giocare a calcio che avevo sei anni. Giocavo con mio fratello che è tre anni più grande di me, ed ero anche bravo. Ero un bambino alto, ma non troppo alto. Ho giocato per sette anni, fino a quando avevo 13 anni. Poi sono cresciuto tantissimo, e un giorno ho deciso di saltare un allenamento di calcio per fare un tentativo e vedere com’era il basket”.

E hai conosciuto l’allenatore decisivo per la tua carriera.

“Ho incontrato Jadran Vujacic quando ho fatto il primo allenamento. Non avevo detto al mio allenatore di calcio perché avrei saltato l’allenamento. La mia idea era di provare. Poi se mi fosse piaciuto sarei rimasto e avrei lasciato il calcio. Non appena ho conosciuto Jadran ho avvertito con lui un legame profondo. Ho conosciuto una persona umile, gentile, che voleva davvero insegnarmi a giocare. Io non avevo mai giocato, non sapevo fare un terzo tempo e un lay-up. Però era bravo con la palla, il mio feeling nel trattarla era eccellente, e le gambe erano buone. Mi è piaciuto subito tantissimo. E così ho comunicato la mia decisione: avrei lasciato il calcio”.

Come è stato possibile in così breve tempo passare dal campo di calcio al Real Madrid?

“Jadran, che è stato il mio primo allenatore ma è anche l’allenatore che mi segue ancora oggi in estate, ha fatto un lavoro eccezionale con me e l’ha fatto fin dal primo giorno, allenamenti individuali, allenamenti di squadra, abbiamo lavorato tanto già nel primo anno, e nel secondo ero già diventato un buon giocatore. Andai ad un camp estivo a Saragozza per sei giorni. Gli scout del Real Madrid mi hanno notato e poi sono venuti insieme a me in Montenegro per qualche lavoro supplementare, per essere certi che avrei assorbito i loro consigli. Dopo altri due anni, sono andato a Madrid”.

Eri giovanissimo, quanto è stato difficile passare dal Montenegro ad una metropoli come Madrid?

“Sono stato fortunato perché i miei genitori sono venuti con me il primo anno. Si trattava di un passo traumatico, non volevo viverlo da solo. Dovevo imparare una nuova lingua, conoscere nuovi compagni, adattarmi a una vita nuova. Ci sono stati momenti in cui ho pensato seriamente di tornare a casa, perché era davvero dura. Andavo a scuola, dalle nove di mattina alle cinque di sera, e dopo un veloce snack prendevo il pullman per andare ad allenarmi. Ero gracile. Ed era così tutti i giorni. Ma sono sopravvissuto e nel secondo anno i miei sono tornati in Montenegro e io mi sono trasferito in foresteria. Un po’ alla volta ce l’ho fatta”.

Dalle giovanili alla prima squadra del Real Madrid: è un passo importante e molto raro.

“Quando sono arrivato in prima squadra mi hanno detto che l’ultimo a riuscirci dalle giovanili l’aveva fatto venti anni prima. Mi avevano detto che sarebbe stato difficile, quasi impossibile. Ma quando qualcuno mi dice che qualcosa è impossibile io lo interpreto come una sfida. Ho fatto tutto quello che era possibile, ho lavorato duro, ho dedicato tutte le estati al basket, per lavorare sul mio fisico e sul mio gioco. Avevo 17 anni quando sono stato aggregato alla prima squadra, il coach era Joan Plaza. Mi allenavo, ogni tanto giocavo due o tre minuti, ma nulla di particolare. Poi ho conosciuto Ettore Messina”.

È stato lui a lanciarti?

“Sono andato un anno in seconda divisione ma ero sempre parte del Real Madrid, per avere qualche minuto e fare un po’ di esperienza. Avevo 18 anni quando Ettore dimostrò di credere davvero in me. Mi ricordo che mi disse “Ragazzo, ho visto che lavori duro, non ho minuti da darti ma fatti trovare pronto per quando l’occasione si presenterà”.  Ho spinto ancora di più, mattina e sera, ero sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarmene. Un giorno, era fine novembre, inizio dicembre, perdemmo una partita e il Coach venne da me e mi disse “La prossima partita giochi, ho bisogno di te”. Ho cominciato a tremare, sul serio ho tremato. Ho segnato 17 punti, in una partita del campionato spagnolo, giocando al posto di Jorge Garbajosa, un campione, una leggenda. Anche i media non sapevano bene come reagire. C’erano dubbi. Poi siamo andati a Siena in EuroLeague. E li ho distrutti. Abbiamo vinto quella partita, ho segnato 18 punti, 13 nel quarto quarto. E da quel momento… è stato il decollo, giocavo per lui, sono stato fortunato di avere un allenatore che si fidava di me e mi ha dato la chance. Uno dei motivi per cui sono qui è Coach Ettore Messina perché da dove vengo, da un piccolo paese come il Montenegro e arrivare a giocare nel Real Madrid, credetemi, è davvero improbabile”.

Sei stato due volte Rising Star di EuroLeague.

“Vincere il Rising Star Award mi è servito per dimostrare quello che potevo fare, i giocatori hanno bisogno di dimostrare quello che valgono, e poi dimostrarlo anche agli altri, al club. Non è successo una volta, ma due, ed è stato importante per il Real Madrid, perché avevamo già fatto tanto, vinto in Spagna, giocato le Final Four. Tutto andava per il verso giusto”.

Pensavi già alla NBA?

“Il passaggio nella NBA era previsto. Ero stato scelto dai Chicago Bulls, meglio Houston cedette il diritto a Chicago, ma sapevo che erano davvero interessati. L’idea era di essere scelto ma senza andarci subito. Ho aspettato tre anni prima di andare a Chicago. Volevo andare nel momento giusto, non volevo solo andarci, non volevo andarci e stare seduto. Per questo ho aspettato. Sono andato che ero più esperto e infatti ho giocato subito più di venti minuti per gara”.

Eri in una franchigia iconica, i Chicago Bulls.

“È stato come vivere un sogno, era un’altra sfida per me perché avevano tanti grandi giocatori. Derrick Rose, Joakim Noah, Jimmy Butler era appena arrivato, Pau Gasol era con me. Era una squadra fortissima. Farne parte e giocare circa 20-21 minuti è stato notevole. Adattarmi ad un nuovo ruolo non è stato facile, soprattutto per il loro stile e la loro mentalità. Ma è stata un’esperienza felice. Sono rimasto più di tre anni alla fine”.

Hai giocato con Derrick Rose, con Anthony Davis a New Orleans e con Giannis Antetokounmpo a Milwaukee.

“Ho giocato con tante superstar, sono tutti giocatori speciali, con un dono speciale, ma se dovessi sceglierne uno direi Giannis. È un ragazzo che mostra sempre il proprio carattere non solo in partita, ma ogni giorno. È una superstar ma è anche super umile. Quando viaggia è sempre disponibile, a fare foto, firmare autografi, non ha mai fretta, si ferma a parlare, guida una macchina normalissima. È un ragazzo come tutti gli altri. Ma quando gioca allora è una cosa irreale, ha talento, è atletico e lavora ogni giorno per migliorare, ad esempio il tiro. Non è un caso che sia stato due volte MVP”.

Eri al top della tua carriera quando hai lasciato la NBA per tornare in Europa.

“Volevo vivere la mia vita in Europa. Nel mio ultimo anno in America sono stato scambiato da New Orleans a Milwaukee, mio figlio era appena nato, aveva due mesi e io avevo bisogno di più stabilità, di trovarmi nel posto giusto, un posto dove i miei figli potessero andare a scuola e crescere. E poi confesso che volevo un ruolo più importante in campo. Nella NBA ero importante, ma mai la prima, seconda o terza opzione. Avevo minuti, avevo tiri, ma qualche volta non mi sentivo a mio agio. Volevo uscire dall’ombra, sentirmi motivato, sotto pressione. Volevo essere un leader. L’impatto della famiglia e il desiderio professionale di essere importante sono stati i fattori decisivi. Ero al top del mio gioco, lo so, ma prima viene la famiglia”.

Hai trovato un’EuroLeague diversa?

“Un pochino cambiata. Vedo il tentativo di somigliare un po’ più alla NBA in termini di stile di gioco, velocità. Il mio primo anno al Barcellona è stato sfortunato perché era l’anno del Covid e in EuroLeague non abbiamo finito il campionato. Però mi sono riadattato in fretta, stavo giocando bene e così stava facendo la squadra, il Barcellona”.

Sei stato tanti anni a Madrid, poi più di tre anni a Chicago, quattro a Barcellona e ora hai un contratto lungo a Milano.

“La stabilità è importante per un giocatore, per ogni giocatore. Soprattutto quando capisci cosa vuoi davvero dalla vita, soprattutto se hai famiglia, allora la stabilità diventa un obiettivo da inseguire. Ma è importante che la stabilità non venga confusa con la comfort zone. Sono due concetti differenti. Io sono sempre andato in un club per restarci a lungo, anche dove poi mi hanno scambiato. A Barcellona ho vissuto anni meravigliosi, ho conosciuto belle persone e sono stato bene. E adesso spero di dare tanto anche a Milano. Per questo ho firmato un contratto lungo, non volevo una cosa a breve termine”

Come vedi l’Olimpia?

“Mi piace sentirmi sotto pressione, è importante essere sotto pressione. Credo in quello che vedo. Milano è una grande società. Ai giocatori piace questo posto, ci sono tante persone che lavorano per te, la città è bella, l’arena è grande, così l’allenatore. Adesso è arrivato il momento di fare un passo avanti, diventare una squadra che sia grande davvero, che accetti le sfide più ardue. Il potenziale è alto. Possiamo fare una grande stagione, lo penso guardando alla taglia, al talento, agli allenatori che abbiamo. Questa squadra è costruita per essere speciale”

Dopo tante battaglie giocherai con Nicolò Melli.

“Lo conosco da quando eravamo piccoli. Mi piacerà giocare con lui, sarà divertente. È un ragazzo eccezionale. Sono felice di giocarci insieme, finalmente, dopo tanti anni spesi a combattere uno contro l’altro. Credo che ci miglioreremo a vicenda. Giocare contro di lui è difficile, perché è sempre al top, è atletico, è intelligente. E adesso che non sono più costretto a giocarci contro, è bellissimo. Insieme possiamo competere contro chiunque. Non vedo l’ora”.

Con Melli e anche con Kyle Hines.

“Appena ho visto Kyle Hines venendo qui ho avuto un flash back di quando era all’Olympiacos e io a Madrid. Ero in contropiede, lui è venuto da dietro e mi ha stoppato. È stata la prima cosa che mi sono ricordato. No, è un grande piacere averlo come compagno di squadra, ho grande rispetto per lui, per come interpreta lo sport, per la sua leadership, come si comporta dentro e fuori del campo. È un esempio perfetto per i giovani. Dovrebbero tutti imitarlo. Sono contento di conoscerlo meglio, abbiamo già una bella connessione. Quando hai accanto uno come lui a proteggerti è meglio per tutti”.