Mike D’Antoni: “Se si dovesse riprendere, saremo in grado di lottare per il secondo posto a Ovest”

Il coach dei Rockets sulla decisione di estremizzare la propria filosofia di gioco: "Abbiamo la fortuna che proprietario, g.m. ed io andiamo tutti nella stessa direzione"

Mike D’Antoni, coach degli Houston Rockets e leggenda del basket internazionale, è stato il protagonista della settima puntata di Meet The Best incontra, un format di A Better Basketball che ha visto la partecipazione di Flavio Tranquillo, la voce della NBA in Italia su Sky. Dopo aver ospitato sette allenatori straordinari in otto giorni, Meet The Best incontra tornerà in diretta martedì 5 maggio sulla pagina Facebook e sul canale Youtube di ABB dalle ore 18, con il più quotato general manager italiano, Maurizio Gherardini del Fenerbahce Istanbul.
Questi alcuni temi trattati dal tecnico dei Rockets nell’incontro di domenica nel quale anche gli appassionati hanno potuto partecipare con le loro domande live e i loro commenti.

La nascita della sua filosofia di gioco
Mi ricordo il giorno che, nel mio terzo anno da allenatore, andai in sede a Milano pensando: “da oggi Pessina (che era un ottimo lungo) partirà dalla panchina, metto Pittis ala forte e inserisco un altro tiratore”. Uso quintetti piccoli perché i piccoli sanno fare più cose con la palla e allargano gli spazi. Da allora, quando sono stato in difficoltà, ho fatto più o meno la stessa cosa e mi è andata bene. In quella stagione a Milano era arrivato Djordjevic e stava giocando male, ma era colpa mia. Da quando ho abbassato il quintetto, la squadra ha decollato. Ma so, anche, che ero andato vicinissimo ad essere esonerato e mi ha salvato l’avere dei grandi giocatori. Senza di loro mi avrebbero cacciato un mese prima di quel famoso giorno della mia svolta tecnica.

La rivoluzione di metà stagione a Houston
Ai Rockets abbiamo la fortuna che proprietario, g.m. ed io andiamo tutti nella stessa direzione. Non fosse così, quando le cose non funzionano, ognuno accuserebbe un altro e saremmo perduti. A noi non interessa arrivare secondi o terzi, vogliamo provare a vincere il titolo. Quest’anno abbiamo preso Russell Westbrook che è un grandissimo campione ma che non stava rendendo secondo le sue potenzialità perché aveva bisogno di un campo più aperto per esprimersi. Abbiamo scambiato un giocatore che a me piace moltissimo, come Capela, e cambiato un assetto più tradizionale, anche se sempre caratterizzato dalle ali forti che tirano da fuori, estremizzando il nostro gioco con un esterno come Covington. In realtà, quando usi un quintetto “piccolo” la cosa importante è che tu possa difendere contro i lunghi avversari e noi abbiamo delle guardie bravissime a marcare giocatori più alti, come Harden o PJ Tucker e, nello stesso tempo, Westbrook e anche Harden hanno maggiore spazio per attaccare il canestro. Sono sicuro che avrebbe funzionato e sono molto dispiaciuto per questo stop: sono certo che, se si dovesse riprendere, saremo in grado di lottare per il secondo posto a Ovest. Poi, nei playoff, si vedrà: non ci sono dei Jabbar in giro. Inoltre, il basket si sta evolvendo e quando parliamo di piccoli ci riferiamo a sette piedi come Antetokounmpo che non sono piccoli ma giocano come se lo fossero.

L’esplosione da coach NBA a Phoenix con Steve Nash
Siamo stati fortunati perché Nash era disponibile: voleva restare a Dallas ma non gli offrirono un contratto. Quell’anno dicevano che i Suns avrebbero potuto raggiungere i playoff, con Steve vincemmo 31 delle prime 35 partite. Era una squadra fortissima, con lui, Stoudemire, Marion, Joe Johnson. E’ stato un peccato che non siamo potuti restare assieme più a lungo, Johnson restò con noi solo il primo anno e fu una perdita pesante, secondo me ci costò un titolo. Nash, prima cosa, è un atleta formidabile anche se non sembra e ha una dedizione totale verso il basket. Era un playmaker fantastico e un leader che trametteva una grande gioia nel giocare. Per me è uno dei più grandi.

Il passaggio da giocatore alla panchina in meno di dieci minuti
Ho smesso di giocare nel 1988, ma mia hanno pagato ancora per due anni per farlo… L’ultima stagione ho giocato malissimo, la mattina faticavo a scendere dal letto dai dolori, ma era l’unica cosa che sapevo e, forse, potevo fare in quel momento e continuavo. Nell’estate del 1990 ero consapevole che non sarei rimasto a Milano, stavo per andare in un’altra squadra fondamentalmente perché dovevo guagnare dei soldi. Una mattina arrivò la telefonata del presidente, credo che Dan Peterson avesse rifiutato di tornare ad allenare, mi offirirono la squadra e io colsi immediatamente quella occasione perché volevo restare a vivere a Milano ed allenare era quello che avrei voluto fare nella vita. Ricordo soprattutto la grande gioia di quel momento. L’unica cosa che chiesi fu di non allenare i grandi amici con cui avevo giocato. Per quello Bob e Dino andarono in un altro club e l’Olimpia ricostruì la squadra.

Fonte: Meet The Best.