Kevin Pangos: Chacho è Chacho. Io porterò solo Kevin Pangos

Kevin Pangos: Chacho è Chacho. Io porterò solo Kevin Pangos

Kevin Pangos si racconta sul sito di Olimpia Milano

Kevin Pangos, cominciamo dall’inizio. Vieni dal Canada, dove l’hockey è lo sport nazionale, ma sei cresciuto in una famiglia di cestisti. Il fatto che tuo padre sia un allenatore e anche tua madre abbia giocato quanto ha influito sulla tua passione per il basket?

“Sono cresciuto dentro e attorno uno spogliatoio perché i miei hanno entrambi giocato e mio padre è stato un allenatore per tanti anni; quindi, il basket è qualcosa verso cui ho sempre gravitato. Sono cresciuto in palestra, ho provato ogni sport, ho giocato a pallavolo, a hockey, a calcio, ma a basket posso giocare senza fermarmi mai. Non mi stanco mai di giocare, è lo sport che amo”.

Come giocatore hai avuto subito successo. A Rho, da ragazzino, hai pilotato la squadra dell’Ontario al successo. Che ricordi hai di quel viaggio?

“È stata una grande esperienza, avevo la famiglia era con me, il viaggio è andato bene, abbiamo sperimentato la cucina italiana e nel torneo abbiamo giocato contro la Lituania, la Serbia, la Francia. C’erano tanti buoni giocatori. È stata la mia esperienza internazionale, sono ricordi indelebili”.

C’è altra Italia nel tuo passato. Sei diventato il più giovane giocatore di sempre nella Nazionale canadese a Trento. Gigi Datome era in campo nell’Italia. Te lo ricordavi?

“Ricordo la partita; non ricordavo che Gigi fosse in campo. Ricordo anche che entrai verso la fine della gara per qualche minuto. A quei tempi, Andrea Bargnani giocava nei Raptors. Io sono cresciuto guardando i Raptors. Il mio primo tiro era da tre punti, in transizione, dritto in faccia a Bargnani. Non ricordo nemmeno se segnai o meno. A quel punto non era importante, lo era essere in campo a quell’età, avevo 15 anni, è stata una grande esperienza”.

La maggior parte dei giocatori canadesi lasciano casa presto per andare a giocare negli Stati Uniti. Te hai scelto una strada diversa.

“Sono rimasto a casa, in Canada, perché a tanti ragazzi che sono andati negli Stati Uniti è capitato di trovare brutte situazioni scolastiche e ci sono sempre tante incognite. In Canada, sapevo cosa avevo, ero in contatto con un grande preparatore atletico, Matt Nichol, a Toronto. Tutto ciò di cui avevo bisogno era lì. Ho pensato fosse il modo migliore per prepararmi al college, concentrarmi su me stesso, forza, condizionamento, tecnica”.

Naz Mitrou-Long viene dall’Ontario anche lui. Lo conoscevi?

“Certo, io e Naz siamo cresciuti insieme, veniamo dalla stessa area, abbiamo ruoli simili. Abbiamo giocato uno contro l’altro e anche insieme qualche volta. Quando abbiamo avuto l’opportunità di venire qui insieme, abbiamo parlato tanto, lo facciamo anche adesso, di quanto siamo fortunati a giocare insieme. È incredibile come i nostri percorsi si siano evoluti fino a incrociarsi. Sono contento di giocare con lui e so che lo è anche lui”.

La tua carriera a Gonzaga è stata spettacolare. Ma resta qualche rimpianto per non essere mai riuscito a portare la squadra alle Final Four?

“Penso spesso a tutte le partite che abbiamo perso nel corso della March Madness, soprattutto quella contro Duke nel mio anno da senior, la mia ultima. Ma alla fine, nella March Madness, solo una squadra finisce l’anno con una vittoria, mentre ce ne sono altre 67 dispiaciute. Io sono stato abbastanza fortunato da giocare quel torneo e tutta quell’esperienza rappresenta già un successo. Ma ho sempre sognato di vincere il titolo nazionale e non ci sono riuscito. Adesso proviamo a vincerne uno qui”.

Ad un certo punto, Gonzaga è stata al numero 1 del ranking per la prima volta nella sua storia. Che tipo di sensazione si prova?

“Speciale. È stata la prima volta nella storia e tutti nella nostra comunità, tutti i tifosi degli Zags sparsi ovunque, hanno vissuto momenti speciali. Avevamo una grande squadra; tanti giocatori diversi che sapevano fare cose diverse. La chimica era eccezionale, abbiamo battuto tante squadre forti, giocato bene. No, è un grande ricordo di sicuro”.

Dopo Gonzaga, non sei stato scelto nei draft, sei ripartito da Gran Canaria. Ma la tua fiducia non è stata intaccata.

“Onestamente, anche quando non sono stato scelto, il mio livello di fiducia è rimasto alto. Più che altro, mi ha motivato. Affrontando la mia prima stagione, a Gran Canaria, il primo obiettivo era dimostrare di essere ub professionista. Ed ero entusiasta di avere la possibilità di giocare a basket come mestiere. Diventare un professionista era sempre stato il mio sogno. E volevo davvero portare il mio gioco ad un livello superiore. Per me, ogni anno da quando sono diventato un pro, la mia ossessione è diventare il miglior giocatore possibile e raggiungere la NBA. A Gran Canaria ho capito che potevo farcela”.

Quindi Gran Canaria, giocando in Eurocup, ad alto livello, è stata un’esperienza decisiva?

“È stato un grande anno. Ho avuto la fortuna di trovare un allenatore come Aito, che mi ha insegnato tanto. Mi ha dato la chance di giocare ad alto livello. A quei tempi non avevo realizzato quando fossero competitive l’Eurocup e la lega spagnola soprattutto per un ragazzo esordiente. Giocare a quel livello, fare quell’esperienza è stato fondamentale. Mi sono anche divertito, ero su un’isola, ho imparato un po’ di spagnolo, ho mangiato bene, il tempo era eccezionale. Al mio primo anno da pro non avrei potuto chiedere di più”.

Sono state annate spettacolari anche quelle di Kaunas soprattutto quando avete raggiunto le Final Four di EuroLeague.

“Kaunas è stata speciale, eravamo un gran bel gruppo, giocatori di talento che sapevano interpretare bene i rispettivi ruoli. Abbiamo affrontato ogni partita durante la stagione convinti di vincerla. Chi non era nel nostro spogliatoio può essersi sorpreso, soprattutto quando ci siamo qualificati per le Final Four, ma noi eravamo sicuri di farcela. Sfortunatamente, abbiamo perso la semifinale, non abbiamo vinto il titolo, ma è stata una bella stagione, abbiamo vinto alcune grandi partite. Era il mio secondo anno in EuroLeague, è stato bello poter dimostrare quanto valessi”.

A Kaunas, avevi Brandon Davies tra i tuoi compagni di squadra. Cosa dobbiamo aspettarci dalla combinazione Pangos-Davies?

“Vediamo, non so quanto possa essere speciale la combinazione Brandon Davies-Kevin Pangos, ma sono contento di giocare con lui. Ci troviamo bene in campo. Lo conosco molto bene. Quando giochi con lui puoi aspettarti che succedano solo cose positive, che sia in difesa o in attacco dov’è così dotato di talento. Giocare con uno come lui rende tutto più semplice. Sono felice di riaverlo come compagno”.

A Barcellona, eri in un grande club, attorniato da grandi aspettative. Inoltre, durante la seconda stagione non hai praticamente potuto giocare per un infortunio. Quanto è stato difficile stare fuori?

“La mia esperienza a Barcellona è stata dura. Mentalmente e fisicamente, perché non sono mai davvero stato sano. Anche quando ho giocato ho sempre avuto problemi di infortuni che mi hanno condizionato e ho perso anche un po’ di fiducia. Non sono mai stato in grado di fare ciò che normalmente posso fare. È stata dura. Ma è stata un’esperienza dalla quale ho appreso molto. Ho giocato insieme a grandi campioni e questo mi ha permesso di imparare e crescere come persona e come giocatore. Per quanto fossi arrabbiato in quel momento, ho tentato comunque di prendere il massimo che potessi da quell’esperienza”.

A San Pietroburgo siete stati in sostanza la sorpresa dell’EuroLeague. È stata un’altra stagione stellare per te, avete quasi battuto il Barcellona nei playoff. È stata la tua miglior versione?

“Non so se sia stata la miglior versione di me come giocatore. Di sicuro mi sono divertito e ho giocato bene per gran parte della stagione. I giocatori hanno assorbito facilmente la filosofia dell’allenatore e alla fine è venuta fuori una stagione speciale. Non so se sia stata la migliore, penso che ogni anno abbia avuto la possibilità di dimostrare qualcosa di più o di diverso, ma di sicuro a San Pietroburgo sono stato bene”.

E hai conosciuto anche Billy Baron.

“Non lo conoscevo, è successo a San Pietroburgo. È divertente giocare con lui perché è un vero tiratore. Ma ho potuto conoscerlo anche fuori del campo. Le nostre famiglie vanno d’accordo. I nostri figli sono di età simile. E anche noi due direi che andiamo d’accordo. Billy è un bravo ragazzo, mi piace giocare con lui”.

Per qualche mese hai giocato nella NBA. È stata un’esperienza in cui credevi, volevi un’opportunità per dire di avercela fatta o cosa?

“Andare nella NBA è stata una delle migliori decisioni che abbia preso in vita mia. Capisco che dall’esterno possa sembrare il contrario, ma era un sogno che avevo da quando ero bambino. Giocare al livello massimo è un obiettivo che ho sempre sognato di coronare. Non ho potuto dimostrare ciò che sapevo fare o giocare come mi sarebbe piaciuto, ma non voglio togliere nulla a quell’esperienza. I Cavs e le persone che ho conosciuto hanno fatto il massimo. Tentare è stata una delle scelte migliori che abbia fatto, non lo rimpiango in alcun modo”.

Adesso Milano: cosa ti ha attratto dell’Olimpia?

“Ho sentito grandi cose di Milano. È una grande società, è una grande città, ma penso che le persone che siano venute a lavorare qui, i giocatori che hanno firmato dimostrano cosa si sta cercando di fare come società. Il successo che hanno avuto negli ultimi due anni dimostra anche che hanno preso la direzione giusta, abbiamo obiettivi da raggiungere e così sono davvero felice di essere qui, di giocare con questo gruppo di ragazzi. Per un allenatore con il quale ho avuto colloqui molto belli sulle aspettative della squadra. Vedremo cosa saremo in grado di fare quest’anno, ma impegnandoci al massimo ogni giorno sul campo il resto verrà di conseguenza”.

Sostanzialmente dovrai rimpiazzare Sergio Rodriguez. Non è un compito facile.

“Ma non penso realmente in questi termini. Chacho è Chacho. È un giocatore leggendario, unico, mentre io cercherò solo di portare in campo Kevin Pangos e quello che so fare. In alcune cose siamo differenti, in altre potremmo somigliarci, ma non devo tentare di essere qualcun altro, devo solo tentare di essere me stesso e dare il mio contributo massimo alla squadra. Spero sia abbastanza per portarla al livello successivo, verso nuovi traguardi”.