“I’m Keith Langord: This is My Story”

Credit: Ciamillo-Castoria
Credit: Ciamillo-Castoria

L'americano si racconta in profondità a margine del suo inserimento nella Hall of Fame dell'Olimpia Milano

“Ero certo che sarei diventato un giocatore di football. Crescendo, giocavo solo a football ed era l’unica cosa che mi interessava davvero. Ma a 11 anni di età, ero alla junior high school, i miei migliori amici, il mio gruppo di amici, finita la stagione del football, li vidi andare tutti insieme in palestra. Chiesi dove stessero andando. C’erano i provini della squadra di basket, mi dissero. Non avevo neppure idea che ci fossero i provini. Ho solo seguito i miei amici. Tutto è cominciato così, la mia avventura nel basket”. Così è iniziata la storia di Keith Langford. Aveva 11 anni, neppure pochi, ma è andato avanti fino a 39. Adesso di anni ne ha 40 e si dichiara ufficialmente ritirato.

È stato uno dei più grandi americani degli ultimi 15 anni di basket europeo, ha vinto titoli nazionali in Italia, Russia, Israele, Grecia, ha vinto coppe europee, titoli di miglior realizzatore, due volte in EuroLeague, trofei individuali, facendosi sempre rispettare per il talento, l’impegno totale, la dedizione. Keith Langford è un membro della Hall of Fame dell’Olimpia per il suo ruolo in una delle migliori stagioni della storia recente del club, l’anno in cui dopo 18 anni venne interrotto il digiuno di titoli nazionali. Ma un anno speciale per altri motivi, i playoff di EuroLeague, le sette vittorie consecutive nelle Top 16, la sensazione che fosse quella una squadra incontenibile, 21 vittorie di fila in campionato tra l’altro. Ecco la confessione di Keith Langford, soddisfazioni, qualche rimpianto, non tanti, orgoglio per quanto ha fatto ribellandosi anche agli stereotipi, ribellandosi ad una carriera anomala in cui, dopo essere diventato uno star a livello collegiale, ha dovuto ripartire da capo e riconquistarsi tutti in Europa.

Keith, sei cresciuto in Texas, dove il football regna, hai poi deciso di giocare a basket ma non in una delle grandi università locali. Perché Kansas?

“Dal momento in cui ho cominciato a giocare fino a quando non ho cominciato a venire reclutato nessuno si sarebbe aspettato di vedermi giocare in una scuola come Kansas. È stato surreale. In quel momento sapevo solo che non volevo andare troppo lontano da casa, ma non volevo neppure rimanere in Texas. Kansas era la distanza perfetta, la situazione perfetta, ma l’aspetto divertente è che inizialmente non volevo andarci. Ero andato a visitare ufficialmente l’università di Cincinnati prima di andare a vedere Kansas. Bob Huggins era l’allenatore. Avevano Kenyon Martin, Kenny Satterfield, Steve Logan, tanti giocatori fortissimi. Alla fine del viaggio dissi a Bob Huggins che sarei andato a Cincinnati. Tornai a casa. La mia visita successiva sarebbe stata a Kansas. Ma dissi a mia madre di cancellare il viaggio, perché avevo detto a Coach Huggins che sarei andato a giocare per lui, a Cincinnati. Lei mi guardò dritto in faccia e mi rispose: “No, la prossima settimana andrai a visitare anche Kansas, manterrai la parola”. Non ci volevo andare, ormai ero convinto di andare a Cincinnati. Ma quando ho visto Kansas, non ho più avuto dubbi”.

Il capo allenatore era Roy Williams.

“Per me è una leggenda. Lo considero allo stesso livello di Coach K, di Dean Smith, nella stessa stratosfera, un Hall of Famer, un uomo di classe. In definitiva, è stata grande esperienza”.

Nel tuo primo anno, da freshman, Kansas è tornata alle Final Four dopo nove anni.

“Se mi guardo indietro, dico che è stato un risultato totalmente inaspettato. Anche adesso quando parlo con mio figlio o con qualche ragazzo di basket dico sempre loro che non c’è modo di sapere dove sarai in un anno, o in due anni. Due anni prima di segnare 20 punti in una semifinale NCAA o di giocare le Final Four, due anni prima di questo, non ero un titolare nemmeno nella mia squadra di liceo. E stavo giocando da ala forte. Arrivare a quel punto nel giro di 24 mesi è stato talmente inatteso che ne sono davvero orgoglioso e ripensandoci è stato incredibilmente divertente. Nessuno se l’aspettava, è stato un momento di genuina soddisfazione”.

Nel 2003 hai segnato più di Dwyane Wade nella semifinale NCAA, poi avete perso la finale con Syracuse guidata da Carmelo Anthony in un finale da batticuore.

“Non ho ancora guardato quella partita e probabilmente non la guarderò mai. È stato un altro momento surreale perché non pensavo di poter mai giocare una partita di quel tipo. È curioso come succedano certe cose. Oggi sono arrivato al mio quarantesimo compleanno e pensare che quella partita è di vent’anni fa, è incredibile come il tempo sia volato. Certo, mi viene da pensare che, se avessi vinto quella partita, sarei stato forse l’MVP e avrei lasciato la scuola in anticipo, sarei entrato nel draft e probabilmente oggi non sarei seduto qui a parlare. Probabilmente non sarei mai venuto in Europa, non sarei mai venuto a Milano. Non voglio dire cosa sarebbe stato meglio o se mi augurassi qualcosa di diverso, ma sto dicendo che sono contento che le cose siano andate come sono andate. Tutto succede per un motivo, e senza quel momento non sarei qui e non avrei realizzato quello che ho realizzato. È stato un momento molto importante per la mia carriera. Dico quella sconfitta”.

Con il senno di poi avresti dovuto lasciare il college dopo quei due anni?

“In realtà, ero pronto. Avevo parlato con alcuni allenatori, il mio coach Roy Williams aveva sentito un paio di agenti e inoltre stava lasciando Kansas per andare a North Carolina. Era un motivo in più per scegliere di andare via. Ma alla fine ha prevalso il desiderio di restare ancora con i miei compagni e riprovare ancora a vincere il titolo NCAA visto quanto ci eravamo andati vicini i due anni precedenti. L’idea era questa: riprovarci. Poi avuto un paio di infortuni, un problema al ginocchio: tutto questo ha creato le premesse per quello che sarebbe stata la mia carriera in Europa”.

Strano però che con la tua carriera, le tue vittorie, gli allenatori che hai avuto, Bill Self dopo Roy Williams, non sei comunque stato scelto nel draft NBA.

“È stato strano perché venivo da un college come Kansas e quando ho lasciato ero il sesto realizzatore di sempre della scuola. Ma avevo 21 anni e tre operazioni al ginocchio in sette mesi. Fisicamente, venivo considerato merce avariata. A quel punto della mia carriera, dopo tanti infortuni, volevo essere scelto ma al tempo stesso in un angolo della mia mente sapevo che probabilmente non sarebbe successo. Il fatto che fossi preparato mentalmente mi ha aiutato a restare solido, a ricordarmi che non essere scelto non significa che non puoi avere lo stesso una carriera significativa”.

Ma pensando a quanto sei migliorato negli anni, ad esempio come difensore o come tiratore da tre punti, ti è venuto il dubbio che forse avresti dovuto riprovarci più avanti?

“La cosa divertente, forse non l’ho mai detto a nessuno pubblicamente… Solo a mia moglie. Dopo l’esperienza con l’Olimpia, quand’ero qui a Milano, ho avuto un’opportunità di andare nella NBA, un contratto parzialmente garantito dai Philadelphia 76ers. Ma ho rifiutato. Avevo 29, 30 anni, mi ero affermato qui in Europa, mi ero costruito un nome, qui mi pagavano bene e non avevo motivo per andarmene. Se mi avessero proposto di fare il titolare, oppure garantito minuti significativi o un contratto importante magari avrei accettato, ma a quelle condizioni mi sono sentito in grado di dire no a Philadelphia. In quel momento, la mia carriera era soddisfacente e non avevo alcuna intenzione di tornare indietro. E per me rimettermi a caccia di un posto nella NBA sarebbe stato come fare un passo indietro, perché sapevo che nella NBA non sarei mai stato il giocatore che ero in Europa, in EuroLeague”.

L’aspetto di cui dovresti essere orgoglioso è che avevi fatto tantissimo a Kansas, ma in Europa sei partito dalla seconda divisione, da Cremona, scalando tutti i gradini un’altra volta.

“Una cosa che dico ai giovani, una storia che dovrebbero far propria: quando sono andato a Cremona, Andrea Trinchieri, che adesso è famoso ma ai tempi allenava a Cremona, e il mio agente mi dissero chiaramente che ero un giocatore di talento ma non ero pronto per giocare ai livelli più alti. Avevo la possibilità di andare all’Alba Berlino, e mi disse che avevo il talento per far bene lì, ma soprattutto necessità di capire il gioco in Europa, comprendere come vivere in Europa, comprendere la mentalità europea, l’approccio. Quindi dovevo andare a Cremona non solo perché avrei giocato ma anche perché lì avrei imparato come vivere, come essere un professionista in Europa. È stato uno dei migliori consigli che ho mai ricevuto, l’ho fatto mio e ho applicato quella lezione ad ogni tappa della mia carriera”.

Bologna ha rappresentato la svolta della carriera europea, giusto?

“Bologna è il posto in cui mi sono costruito un nome. Devo dare credito a Matteo Boniciolli, il mio allenatore. Se mi vede voglio dirgli che gli voglio bene. Ha avuto un grande impatto sulla mia carriera. A lui e a Tonino Zorzi sono grato. Giocavo con Earl Boykins, Jamie Arnold, Sharrod Ford, Petteri Koponen. Avevamo una grande squadra. Nel nostro primo incontro mi disse subito che sarei partito dalla panchina. Oh, no… dovrò partire dalla panchina. Ma lui aggiunse: partirai dalla panchina ma in campo voglio che tu sia Keith Langford, voglio che tu dimostri quanto talento hai, le tue qualità, ti darò l’opportunità di farlo. Da quel momento, dal primo momento, tutto ha funzionato. Lo stile di gioco, la mentalità”.

In America riesci a spiegare, a far capire alla gente che cosa hai fatto in Europa? Che non aver sfondato nella NBA non significa che non hai avuto una grande carriera? Anche Kyle Hines dice che è complicato.

“È un fatto interessante, ma no, la gente in America non capisce davvero. Quando parlo con qualcuno, di solito vedo che non comprendono fino a che non mi rivedono. Perché, dopo, vanno su Google, guardano i video di YouTube, consultano Wikipedia. E allora dicono ma non mi avevi detto che avevi fatto questo, vinto quest’altro, eccetera. E allora cominciano a capire. Ma in America, soprattutto nel basket, o nello sport in generale, tendono a pensare che, se non hai fatto qualcosa nella NBA, non puoi aver fatto molto da altre parti. E la verità non potrebbe essere più distante. Io sono venuto in Europa, ho lasciato un ricordo duraturo, a mio modo sono diventato una leggenda, e non cambierei questo con niente al mondo. No, non lo farei mai”.

Da Bologna, sei andato al Khimki, hai debuttato in EuroLeague, vivendo in Russia, a Mosca.

“Raccontavo questa storia l’altro giorno. Quando ho firmato per il Khimki, mi avevano detto che non sarebbe stato un posto sicuro, la Russia. Allora, andai su internet, a quei tempi Google esisteva ma non era come adesso, le informazioni non erano immediatamente fruibili come avviene ora. E mi imbattei in alcune storie sul Khimik, che era un’altra squadra, in Ucraina. Lì ho avuto qualche attimo di panico, mi sono chiesto cosa avessi fatto, se sarei stato al sicuro, che mi ero creato un problema. Ma poi sono arrivato a Mosca e fin dal primo giorno, ora posso dire che è stata una grande esperienza. La squadra, lo stile di vita, i ristoranti, il livello tecnico molto alto, un ambiente eccezionale. La gente mi guarda strano quando dico che Mosca è stata una delle migliori esperienze che abbia avuto. Adesso, il basket in Russia, la VTB League sono cose che mancano per tutto quello che è purtroppo capitato, ma la mia esperienza lì è stata positiva”.

Com’è stata l’esperienza al Maccabi: quando l’Olimpia ha giocato i playoff a Tel Aviv ricevetti un’accoglienza da eroe.

“Il Maccabi, soprattutto dopo quello che era successo alla fine dell’esperienza con il Khimki – avevo avuto un problema con l’allenatore che era arrivato e il club mi aveva rilasciato per cui ero rimasto a casa per un paio di mesi quando ricevetti la chiamata di David Blatt –, il Maccabi ha salvato la mia carriera. Non so altrimenti cosa sarebbe successo, non stavo ricevendo tante chiamate, e andare al Maccabi, in quell’ambiente, con quei tifosi, i miei compagni di squadra, gli allenatori, era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Se non fosse stato per la chiamata di Milano, avrei volentieri trascorso non so quanti anni al Maccabi. Era un ambiente che mi piaceva, che ho amato, e dal punto di vista sportivo penso davvero mi abbia salvato la carriera”.

Arriviamo a Milano e ad un primo anno in cui cosa non ha funzionato?

“Non ha funzionato nulla, ma penso sia stata una questione di timing perché, se guardi ai nomi in quel roster, storicamente potrebbe essere stato uno dei migliori roster che si possano trovare in una squadra di EuroLeague. Ioannis Bourousis, Antonis Fotsis, Omar Cook, Keith Langford, Malik Hairston, Gentile, Melli. Hai tutto: stelle, giocatori scelti dalla NBA, leggende dell’EuroLeague, campioni, c’era un allenatore che ha vinto tutto. Credo che sulla carta fosse un roster perfetto. Ma in quel momento non eravamo sulla stessa pagina, avevamo un gruppo di giocatori di talento, che guadagnavano tanti soldi, e avevano tutti obiettivi diversi in mente. E in quel momento non penso che a Milano avessimo la cultura vincente che sarebbe servita. Abbiamo cercato di capire come risollevarci, ma nei momenti difficili ognuno di noi è andato per la sua strada. Mi dispiace molto: non abbiamo capito che avremmo potuto essere una squadra speciale. Sì, non l’abbiamo capito”.

Nel secondo anno a Milano hai giocato a livelli incredibili. Cos’è cambiato?

“Sono cambiate tante cose in quella seconda stagione, ma soprattutto ho cambiato il mio modo di allenarmi, ho cambiato il modo di prepararmi, e per la prima volta ho portato con me il mio personal coach. È rimasto con me tutto l’anno dopo avermi preparato in estate. Devo dare credito anche a Luca Banchi: è arrivato e ha portato con sé la cultura vincente che avevano a Siena, l’energia, la concentrazione, la mentalità, un giocatore come David Moss, e ha dato alla squadra un’identità. E un’altra cosa che ha permesso alla squadra il salto di qualità è stata l’arrivo di Daniel Hackett da Siena a metà stagione. La squadra era stata costruita in modo tale da consentirmi di massimizzare per la prima volta nella mia carriera tutto quello che avevo imparato, per cui avevo lavorato, l’esperienza che avevo maturato. Tutto è avvenuto allo stesso momento, è stata la tempesta perfetta. Avevo fame come giocatore e in quel momento ho sentito che era arrivato il mio momento. Come ho detto, ho costruito il mio nome a Bologna ma a Milano ho imparato come essere davvero grande”.

Ad un certo punto l’Olimpia vinse sette partite di fila nelle Top 16. Sembrava la squadra più forte d’Europa.

“Ricordo la partita che giocammo a Baskonia. Giocavamo per qualificarci. Ricordo quella partita, ma anche prima di quella partita, perché ho pensato che avremmo vinto quella gara e saremmo entrati nei playoff e nella mia testa mi sono detto “Possiamo battere tutti”. Avevamo tutto: l’esperienza, i realizzatori, la taglia fisica, il talento, tutto. E ho pensato che non ci potesse fermare nessuno. Ho pensato che quello fosse ciò che stavo aspettando da tutta la vita”.

Invece alla serie con il Maccabi che poi ha vinto il titolo siete arrivati non al meglio.

“Non voglio togliere nulla a quello che hanno fatto al Maccabi. Coach Blatt è quello che è per un motivo. Tyrese Rice: quello è stato il suo biglietto da visita, il momento in cui ha dimostrato quanto valesse, diventando quello che è diventato. Ma è stata dura perché arrivati lì non avevamo più la squadra che avevamo durante le Top 16. La salute è quello che conta. Prima parlavo della partita con Baskonia: alla fine di quella gara mi sono stirato. Poi Ale (Gentile) si è infortunato. Tutto questo ci ha mandato un po’ fuori ritmo. E quando penso a quel momento, questo è ciò che mi ferisce di più: vorrei aver avuto con quella squadra un’altra possibilità. Quello è il rimpianto più grande, molto più di un tiro sbagliato, un errore, una palla persa che ci sono costati le partite. Avrei voluto riprovarci con quella squadra. Questa è la pillola più dura da mandare giù”.

Poi è arrivato lo scudetto, il primo dopo 18 anni. Ma difficile, forse più del previsto. Cosa sentivi dopo la sconfitta in Gara 5 di finale, quando Siena è andata avanti 3-2 con Gara 6 in casa.

“Adesso posso essere onesto su questa finale. Pensavo, tutti lo pensavamo, no non voglio dire tutti ma molti di noi, io incluso, pensavamo di battere Siena e andare a casa, vincere il titolo e andare a casa. Pensavamo sarebbe stato un 4-1, forse un 4-0. Avevamo troppa fiducia in noi stessi, pensavamo che sarebbe stato non dico facile ma che, se avessimo giocato come sapevamo, avremmo vinto. Quando abbiamo perso Gara 5, i dubbi hanno cominciato a entrarci in testa. Devo dare credito ad Ale. Era un ragazzino a quei tempi. Ma non voleva perdere, il suo spirito competitivo si leggeva nei suoi occhi. Si vedeva quanto significasse per lui, quanto fosse importante. Dopo la sconfitta, vedendolo, ci siamo ricaricati. E così siamo riusciti ad arrivare alla vittoria di Gara 6. Curtis Jerrells merita credito per quel tiro, a me hanno riconosciuto il tipo di stagione che ho fatto, ma in quella serie Ale Gentile è stato il nostro leader. Ha meritato il trofeo di MVP. È stato il nostro trascinatore”.

Gara 6, ultimo possesso, la palla nelle mani di Curtis Jerrells. Punteggio pari. Non la passa a nessuno e segna il canestro della vittoria. Sei stato il primo a corrergli addosso.

“Sì, sono stato il primo e sono stato il primo perché ero arrabbiato, volevo io la palla! Se guardi il video, Ale voleva la palla, io volevo la palla e Curtis ci ha mandato via tutti. Curtis, Curtis… Ale lo chiamava. Ma Curtis era nella sua posizione preferita. Ho guardato poco fa la foto e puoi vedere la palla sulla punta dei polpastrelli. È stato un sollievo. Ero felice per Curtis, ma più di tutto è stato un sospiro di sollievo, perché tutto quello per cui avevamo lavorato per dieci mesi sembrava quasi svanito. Ma in un attimo siamo tornati a vivere di nuovo. Lì ho pensato che non ci fosse proprio modo di non diventare Campioni d’Italia”.

Ci fu un’invasione di campo folle, mai vista tanta felicità in così poco spazio. Se guardi la foto: le tribune sono piene, ma lo è anche il campo!

“Eravamo tutti in pericolo. Avevo mio figlio con me. Aveva un anno allora, ma non piangeva mai, non faceva mai smorfie con il volo, ed era lì che guardava tutto quello che stava succedendo. Io ero in mezzo, c’era gente dappertutto, tifosi che mi tiravano da una parte, che volevano la maglia, tutto. Non ho mai visto una cosa del genere. Abbiamo parlato del Maccabi, di Bologna, di Kansas, ma quel momento, gli italiani, i fedelissimi di Milano… ricorderò quel momento per tutta la vita. Mi viene quasi da piangere a ripensarci. Non ho mai provato nulla del genere. Quando ti ritiri quelli sono i momenti che ti mancano davvero. Non vivrai più un momento come quello. Incredibile, è stato incredibile”.

Ti ha sorpreso la grande carriera che ha avuto Nicolò Melli dopo quella stagione?

“Quando era a Milano, Melli fisicamente era impressionante. Era un ragazzo ma fisicamente era incredibile, potevi gettarlo in una giungla e sarebbe diventato Tarzan. Ma quando ero in Russia, ho visto da lontano cosa stava facendo a Bamberg, abbiamo anche giocato contro, l’ho seguito con attenzione. E dopo quella stagione, dopo averci giocato contro, nulla di quanto ha fatto mi ha più sorpreso. Se l’avessi giudicato solo per quello che aveva fatto a Milano forse sarei stato sorpreso di vederlo così forte, ma dopo Bamberg tutta la sua carriera ha avuto un senso logico”.

E ti aspettavi di più da Ale Gentile?

“Io e Ale ci siamo persi dopo un po’. Ma non ho mai avuto con un compagno di squadra in Europa la stessa connessione che ho avuto con Ale. Non sono un genio o un guru, ma penso davvero che, quando è stato scelto dai Rockets, avrebbe dovuto andare. Gliel’ho detto dopo subito dopo i draft: vai, vai, tanto puoi sempre tornare indietro in Italia, avrai sempre una casa qui. Ma posso capire: era giovane, aveva appena vinto lo scudetto, in Italia era una megastar in quel momento. Lo capisco. L’ultima cosa che voglio dire, e so che mi prenderanno per pazzo, ma Gentile avrebbe potuto essere Luka Doncic prima di Luka Doncic. Le cose che Luka ha fatto a Madrid, penso che Ale avrebbe potuto farle a Milano. Era quel tipo di talento”.

Ok, Keith, parliamo dell’elefante nella stanza: l’Olimpia ha commesso un grave errore a lasciarti andare via dopo lo scudetto.

“Da un punto di vista economico capisco perché non sia rimasto. Avevo 30 anni, guadagnavo molto e a Milano avevano tanti giocatori giovani, Gentile, Hackett. Capisco il ragionamento: hanno pensato di trovare un altro realizzatore che costasse meno perché avevano il futuro in casa. Quindi, ripeto, capisco perché non sia rimasto. Ma quello che è frustrante è che, se guardi a tutti i grandi giocatori, Spanoulis, Holden, Langdon, questo tipo di giocatori sono rimasti con la stessa squadra, cinque, sei sette anni, hanno potuto trovare il loro ritmo, sviluppare una cultura, una mentalità. Quando sono andato via ho pensato che sarebbe stato difficile tornare così vicino ad una Final Four, trovare un’altra situazione come quella che avevamo a Milano. È stato difficile, è stato duro da accettare, ma ho compreso quello che stavano facendo. Ma quello che la gente non sa è questo: due anni dopo, mi hanno richiamato e proposto di tornare. Ammetto, è stato appagante. Siamo stati molto vicini ad un mio ritorno ma avevo un contratto in Russia ed era difficile uscirne. Se fossi stato libero, se fossimo stati a fine stagione avrei accettato in un secondo. In conclusione, è stato duro accettare di andare via ma quando hanno tentato di riportarmi indietro quello è stato come chiudere un cerchio personale. Mi ha fatto sentire bene”.

Hai giocato fino a 39 anni passati. Qual è stato il segreto della tua longevità?

“Arriva un momento in cui ogni giorno devi fare qualcosa, devi trovare il giusto equilibrio. Non puoi riposare troppo o spremerti troppo duramente. Io ad un certo punto ho trovato l’equilibrio corretto. Tutto è cominciato prima della stagione 2013/14 quando ho cominciato a usare il mio trainer tutto l’anno, sempre con me, per mantenere lo stesso ritmo, le stesse dinamiche, ogni stagione, dal recupero a tutto il resto, perché avevo un supporto in più ogni giorno. Credo che questo sia stato importante. Ma per me io mi divertivo a giocare, mentalmente non c’era nulla che volessi fare di più che giocare a basket”

Esiste una statistica, non ufficiale, ma qualcuno ha contato e scoperto che sei il giocatore americano che ha segnato di più in Europa a prescindere dalle leghe in cui ha militato.

“È stato Nikos Zisis a dirmelo, a dirmi che ero il giocatore americano che ha segnato di più in Europa. Mi ha stupito. Non ho mai giocato per questo, giocavo per essere la miglior versione di me stesso che potessi essere. Quando l’ho saputo ho cominciato a pensare a tutti i grandi giocatori americani che sono stati qui, da Trajan Langdon a Marcus Brown. Con tutti i grandi giocatori che sono venuti in Europa, trovarmi al top è qualcosa che da un lato mi ha scioccato e dall’altro reso orgoglioso. E adesso posso dire di quale NBA stiamo parlando? Sono il miglior realizzatore americano nella storia del basket europeo! Credo che ora sia Mike James il primo, ma esserlo stato è una sensazione incredibile, un grande traguardo”.

Cos’ha significato la Keith Langford Night a Milano?

“Una volta avevo un compagno di squadra, Jamie Arnold. Lui aveva oltre trent’anni, io ero molto giovane. Mi ricordo che voleva completare gli ultimi ritocchi a quello che lui definiva il suo lascito. Non lo stavo neanche ad ascoltare, non capivo di cosa parlasse, il lascito di un giocatore americano qui in Europa? Non capivo. Ma adesso capisco. Tornare qui a Milano dopo dieci anni, dieci anni che non gioco qui a Milano, mi permette di capire bene cosa significhi lasciare un’eredità, aver avuto un impatto. Non giocavo per questo, ma adesso posso dire che è il momento di cui sono più orgoglioso della mia intera carriera. Non sono stato sempre perfetto, non ho fatto tutto bene, ma per la gente di qui pensare che meritassi questo ritorno mi emoziona. Questo è il motivo per cui giochiamo”.

Cosa fai adesso, Keith?

“Sono un fanatico del basket, alleno la squadra di mio figlio, lavoro con alcuni ragazzi di high school, li aiuto a migliorare. Faccio quello che posso per andare in palestra, magari gioco uno contro uno ed è divertente perché, dopo, mi chiedono se sono sicuro di non aver giocato in qualche posto. E rispondo che sì tanti anni fa ho giocato un po’, non racconto mai tutta la storia. Sono fortunato perché ho guadagnato abbastanza durante la mia carriera che adesso non sono obbligato a cercare un lavoro, posso organizzare i miei giorni come voglio. Un giorno posso allenare un ragazzo, un altro gioco io, un altro alleno mio figlio, ma sono sempre in palestra. Se venite a Austin, Texas, e avete bisogno di me potete trovarmi da qualche parte a giocare”.