Se è vero, come dice Sergio Caputo, che «un destino pivot ci sta alle costole», io non devo essere stato molto bravo a smarcarmi. Perché per 41 anni sono rimasto sotto canestro scrivendo di basket (ma anche di nuoto, pallanuoto, boxe, atletica) per il Corriere dello Sport-Stadio; prima come giovanissimo collaboratore, poi come giornalista professionista e responsabile della rubrica.
Oggi, visto che il mio giornale mI ha offerto questa possibilità, ho deciso di chiamare un time out. Ci saranno tre mesi in “camera di decompressione“ per ragioni burocratiche, ma sostanzialmente l’avventura con il Corriere dello Sport, lunga, divertente e ricca di soddisfazioni, si è conclusa.
Impossibile non ringraziare il mio giornale per avermi accolto e assunto nel lontano 1987 nonostante la mia sinistra propensione ad indossare in redazione magliette non propriamente sobrie di jazz e southern rock, che ovviamente porto ancora.
Un grazie speciale va a Mario Arceri, un impareggiabile maestro che nei primi anni, con pazienza e tenacia, mi ha insegnato le basi di questo mestiere, quell’ ABC che in molti saltano a piè pari con conseguenze imbarazzanti. A volte con Mario ci siamo confrontati su posizioni opposte, ma sempre animati da quell’amore per la pallacanestro che ci univa e che tutt’ora ci unisce: a lui non smetterò mai di volere bene.
Nel mio percorso al Cds mi ero prefissato sin dall’inizio due priorità: pubblicare notizie e raccontare storie e personaggi. Spero di esserci riuscito.
La mia più grande soddisfazione? No, non è stata la notizia data in anteprima del ritorno di Gallinari a Milano nel 2011 a cui qualcuno non aveva creduto, ma l’aver scoperto e scritto della penosa situazione di senzatetto in cui si trovava negli Usa Abdul Jeelani, fenomenale ex ala dell’Eldorado Lazio e mio idolo di gioventù. Grazie a quell’articolo Abdul venne invitato a Roma dalla Lazio e per qualche tempo potè vivere in maniera dignitosa, prima di morire a soli 62 anni per una crisi cardiaca. Quando lo incontrai in redazione, Jeelani non era riuscito a trattenere le lacrime. Ed io neppure.
Episodi curiosi da raccontare ne avrei a bizzeffe. Ma il migliore rimane quello avvenuto un primo maggio, quando il mellifluo tuttofare di un famoso allenatore mi telefonò avvertendomi che se non avessi smesso di criticare la sua squadra, il coach avrebbe tirato fuori un “dossier” sul mio conto.
Boom!! Prima mi sono messo a urlare, poi a ridere di gusto. Quel tecnico oggi non lavora più in Italia, con il club di allora non ha vinto nulla, e ormai quasi nessuno ricorda il mellifluo tuttofare.
Confesso che per tutti questi decenni non sono stato totalmente imparziale riguardo tre soggetti: Messina, Datome e la famiglia Gentile. Il rispetto e la considerazione che nutro per Ettore, prima come uomo e poi come tecnico, è sempre stato totale e incondizionato. E ancora oggi, lui lo sa bene, la sua grandezza continua ad incutermi una certa soggezione. Gigi è la migliore persona che abbia incontrato sui parquet: gentile, colto, curioso, generoso, leale. Mi ha onorato della sua amicizia, e questo non lo dimenticherò.
La famiglia Gentile o la si ama o la si detesta: io l’ho amata subito, a partire da Nando per poi passare a Stefano e Alessandro. Vivono e giocano senza filtri e senza ipocrisie, pregi che ai nostri giorni sono considerati peccati mortali.
E adesso? «Il passato è un inseguitore tenace, un branco di lupi che non molla la preda», scrive Don Winslow. Ecco, è probabile che il basket non mi lascerà andare così facilmente. Ma stavolta, per carità, non fatemi marcare da un pivot!
Un caro saluto a tutti
Andrea Barocci
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