De Raffaele: Il mio basket parte dalle persone

Le parole del coach di Venezia a Meet the Best

Walter De Raffaele, coach dell’Umana Reyer Venezia campione d’Italia, è stato l’ospite conclusivo di Meet The Best Incontra, il format di A Better Basketball che, nelle ultime tre settimane, ha raccolto le testimonianze di grandi personaggi del basket italiano e internazionale. Tutte le tredici puntate sono visibili sulla pagina Facebook e sul canale YouTube di A Better Basketball. Ecco alcune risposte del vincitore della Coppa Italia 2020, l’ultima manifestazione disputata.

Sullo stop e l’eventuale ripartenza in Eurocup
La sensazione è che tutto sia successo 10 anni fa, tante cose drammatiche sono accadute dalla bellissima vittoria in Coppa Italia. Fermarsi è stata la cosa giusta da fare, ma, sportivamente parlando, avevamo la sensazione che la Reyer avesse finalmente trovato la propria identità dopo un inizio stagione complicato, cosa abbastanza comune alle mie squadre che hanno una carburazione lenta. Siamo in attesa delle decisioni sulla ripresa dell’Eurocup, ci faremo trovare pronti se si dovesse ripartire.

Sulla sua capacità unica di gestire roster di 14 giocatori
Il mio basket parte dalle persone e dalla loro motivazione e capacità di pensare al successo della squadra prima che a quello individuale. Alla Reyer abbiamo implementato questo sistema negli anni, anche se solo Bramos, Tonut e Stone sono rimasti del progetto iniziale: cerchiamo di migliorare grazie a giocatori che vogliano vincere un titolo disposti a far parte di un gruppo, in campo e fuori. Sembra banale, non lo è se è questa la prima cosa che un allenatore dice con chiarezza a un giocatore prima ancora di ingaggiarlo. Non voglio che nascano equivoci su quello che chiedo a ogni singolo atleta, il momento più difficile e imbarazzante per me è quando devo decidere il turnover di chi sta in tribuna. Il concetto che mi guida è quello della meritocrazia e del lavoro in palestra.

La sua filosofia e il passato da giocatore
Sono stato un giocatore normale, ma pensante, curioso: parlavo sempre con Alberto Bucci di quanto gli rompessi le palle durante le partite e gli allenamenti per capire. Di quella esperienza ho portato in panchina soprattutto la sensibilità dell’essere stato giocatore, cioè fin dove spingermi con loro, quando cambiare messaggio, come comunicare, il rapporto stretto col playmaker, ruolo in cui giocavo. Di certo non dico mai “ai miei tempi”, non fa parte del mio essere. Delle mia prima esperienza di giocatore ad alto livello con l’Enichem Livorno di Bucci, mi resta la passione per le difese tattiche, la ricerca costante della soluzione per nascondere i punti deboli della mia squadra cercando, invece, di esaltare quelli degli avversari. E’ il mio imprimatur: poi ho imparato da ogni esperienza che ho avuto: tante cose le ho provate e scartate, altre sono le stesse da vent’anni.

Sul suo “look” in panchina
So che quando ho cominciato a portare lenti da sole in panchina, gli arbitri soprattutto nelle coppe pensavano che fosse “cool” da parte mia, molto fashion e mi indicavano tra loro come “l’uomo in occhiali scuri”. Ma non lo faccio per essere figo, ma per l’aura visiva che mi provoca mal di testa fortissimi e debilitanti. L’unico modo per sopportare le luci dei palazzetti è proteggermi.

Sulla Reyer e il futuro
La Reyer ha una missione sociale, se ci lavori devi sentirla dentro di te, solo così puoi capire dove sei capitato. All’interno del club tutte le componenti, la A maschile, la A femminile, i vivai, il progetto scuola, godono davvero della stessa considerazione e attenzione. Ai tifosi dico che è naturale per Venezia giocare sempre per puntare a vincere tutte le manifestazioni alle quali partecipa. Ma anche di godersi questi momenti di successi perché non sono scontati: lo sport è fatto di cicli.