Billy Baron: A Milano per vincere in Europa e in Italia. Qui per dare tutto

Billy Baron: A Milano per vincere in Europa e in Italia. Qui per dare tutto

Billy Baron è un tiratore naturale, ma essere un grande tiratore naturale non sempre è sufficiente

Billy Baron è un tiratore naturale, ma essere un grande tiratore naturale non sempre è sufficiente. Devi andare in palestra, tirare, lavorarci sopra e migliorare ogni giorno. Poi, quando sei diventato un grande tiratore, le difese si preparano per affrontarti. Le difese cercano di eliminarti. Ti spingono sempre più lontano dal canestro. E non ti fanno vedere nemmeno uno spiraglio di luce. Quindi, devi essere creativo, devi essere veloce, l’esecuzione deve diventare fulminea. E ciò che è più importante sono… le gambe. Sì, le gambe. “La gente fa attenzione alla parte superiore del corpo – dice Billy Baron -, alla tua forma, ma tutto parte dalle gambe, da quanto sei capace di schizzare in aria e tirare più velocemente, eseguire il gesto il più rapidamente possibile. Ora, a 31 anni, non importa dove mi trovo sul campo, fintanto che le mie gambe sono nella posizione corretta e posso schizzare verso l’aria, so di avere buone possibilità di fare canestro, che venga da destra o che provenga da sinistra. Penso che la mia rapidità d’esecuzione cominci dalle gambe”.

Tirare è una peculiarità familiare a casa di Billy Baron. Forse essere il figlio di un allenatore aiuta a sviluppare certi automatismi. Commetti un piccolo errore e lui è lì pronto a correggerlo. E che dire del fratello maggiore, un altro fantastico tiratore che una volta ha segnato 10 triple in una singola partita della BCL? “Mio fratello Jimmy è un tiratore meccanico, ha cercato di insegnarmi la giusta meccanica di tiro, ma da ragazzino io ero un tipo molto testardo – confessa Billy -. Volevo imparare da solo. Lo guardavo, cerco sempre di imparare osservando, e guardandolo mi sono detto che è così che ogni tiro dovrebbe apparire. Ma poi ho aumentato i tentativi, ho eseguito più tiri e quando sono diventato più forte da ragazzino, sono anche stato in grado di usare meglio le gambe e la forma è lentamente cambiata fino ad arrivare al punto che desideravo. Io e mio fratello abbiamo imparato a tirare in modo diverso, lui molto tecnico, io più visivo. Ho imparato così”.

I tiratori si esercitano ogni giorno. Centinaia di tiri. C’è chi ti prende i rimbalzi, ti passa la palla, sceglie tempi e modi giusti per arrivare a trasformare un tiro in un automatismo, un gesto automatico. C’è solo un piccolo problema: quando sei in una partita non c’è nessuno che ti passa la palla nella posizione giusta, al momento giusto, anzi hai avversari che ti corrono incontro, con le braccia alzate, urlando, non importa se sia legale o illegale, e il passaggio non è quasi mai perfetto, non arriva al petto, è sempre troppo basso o troppo alto, un tantino a destra o a sinistra. I difensori invece non ti concedono un millesimo di secondo, ti piombano addosso, ti distraggono. Allora, a cosa è servito tutto il lavoro svolto in allenamento, con un allenatore a prendere i rimbalzi e passare la palla? “Il lavoro non finisce mai, ma adesso a 31 anni, è soprattutto un fatto mentale. Non credo mi servano tante ripetizioni, ma devi riprodurre il più possibile i tiri che prenderai in partita, avvicinarti a quelle situazioni di gioco. Se aggredisci ogni tiro come fai in partita, diventi più continuo. Fin da ragazzino, ho cercato di lavorare sui tiri dal palleggio. Quando qualcuno ti prende i rimbalzi e ti passa la palla arrivi ad eseguire un tiro istintivo. A quel punto diventa una questione di testa. Ma per essere un grande tiratore devi essere un grande tiratore dal palleggio, usando la mano destra, usando la mano sinistra, perfezionando il crossover o usando un blocco sulla palla. Gli allenatori in Europa adorano chi può tirare dietro un blocco, in isolamento o uscendo dai blocchi per fare un passo a destra, uno a sinistra, poi uno dietro così sembri sbilanciato, ma in realtà non sei davvero sbilanciato. È essenziale, imparare a tirare differenti tipologie di tiro e poi diventare continuo: questo è ciò che ti rende un grande tiratore”.

DINAMICHE FAMILIARI

Billy lo ricorda come se fosse ieri. Quando ha firmato la sua lettera di intenti con Virginia c’erano telecamere ovunque. Stava per andare in un college importante, in una delle conference più competitive, dove avere enorme visibilità non è mai un problema. Era sulla strada giusta. Il padre era accanto a lui. Avrebbe voluto allenarlo a Rhode Island proprio come aveva fatto in precedenza con Jimmy. Ma quel giorno era lì da padre, orgoglioso di esserlo. Billy era piccolo, giovane e duro. “Si è trattato di una situazione dinamica; mio fratello ha giocato per mio padre a Rhode Island. In quei momenti il loro rapporto era diverso, mio ​​fratello era la sua guardia tiratrice e questo ha generato qualche tipo di conflitto. Mia madre era nel mezzo. Ho assistito a tutto questo, si trattava delle tipiche discussioni a tavola tra padre e figlio, un tipo di dinamica molto comune, frustrante, accentuata dal fatto che mio padre era anche il suo allenatore. In quella fase della mia carriera, giocavo come playmaker e con la palla in mano sentivo di avere più controllo sulla squadra. Sono andato a Virginia anche perché come coach c’era Tony Bennett e avevo grandi giocatori come compagni di squadra. Ma soprattutto perché mio padre, mia madre e persino il mio allenatore del liceo mi avevano consigliato di provare quella strada perché sarebbe stato difficile giocare per mio padre”, ricorda Billy.

Ma c’era qualcosa di sbagliato a Virginia. Non gli allenatori o i compagni di squadra. Il suo preferito era Joe Harris, che ora è uno dei migliori tiratori della NBA con i Brooklyn Nets. La verità è che Billy non voleva davvero giocare a Virginia. Voleva giocare per il padre. Nient’altro contava di più per lui. “Uno dei miei obiettivi era giocare per la squadra della mia città e arrivare a disputare il torneo NCAA, cosa che mio fratello è stato in grado di fare. Quindi, la verità è che il mio cuore non è mai stato a Virginia. Coach Bennett e il suo staff sono stati fantastici, ma per tutto il tempo che ho trascorso a Virginia, la mia mente e il mio cuore erano a Rhode Island. Ecco perché ho deciso di trasferirmi, tornare a casa e cercare di salvare il posto di mio padre. Non ho rimpianti”, spiega. Quando Jim Baron fu licenziato e si trasferì a Canisius, Billy lo seguì. “È strano come sono andate le cose, ho frequentato tre college in quattro anni. Non è una cosa che ti aspetti. Ma è divertente come è andata a finire perché nel mio ultimo anno, in una piccola scuola, sono stato in grado di mostrare quanto talento avessi. Ho fatto tanti provini NBA, non so se sarei stato in grado di farne di più se fossi rimasto a Virginia, perché a Canisius ho potuto mostrare molto di più il mio repertorio”. Molto, molto di più. È stato infatti uno dei migliori realizzatori d’America a oltre 24 punti di media. “Era un momento in cui avevo fortissime motivazioni, volevo dimostrare che avevano sbagliato sul mio conto, anche se avevo iniziato a Virginia e sono finito a Canisius che è una scuola molto più piccola e meno importante. Avevo il fuoco dentro, volevo dimostrare che potevo giocare ad alto livello e che ero un professionista, che potevo arrivare a giocare nella NBA o in EuroLeague. Andare da Virginia a Canisius non ha mai cambiato i miei piani, ma mi ha dato grandi motivazioni e, onestamente, ripensandoci, è stato anche divertente dimostrare che su di me si sbagliavano in tanti. Mi ha aiutato a guardare avanti per raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi. Inoltre, ho incontrato mia moglie a Canisius e ora abbiamo due bellissimi bambini”.

IL BASKET CHE AMORE!

Billy è cresciuto in una famiglia di cestisti. Il basket ha portato Jim Baron a St. Bonaventure, dove era una discreta guardia, il basket ha fatto di lui un allenatore al termine della carriera. È stato assistente a Notre Dame, poi capo allenatore a St. Francis dove ha allenato Mike Iuzzolino. E ancora, a St. Bonaventura e Rhode Island. La famiglia l’ha seguito lungo il percorso. “Io e mio fratello ci siamo innamorati del basket in modo naturale – racconta Billy -. Siamo cresciuti negli spogliatoi. Fin da bambino andavo alle partite di college ed era divertentissimo. Mio padre non ci ha mai spinto a giocare a basket, ma io e mio fratello volevamo stare solo con i suoi giocatori, la sua squadra e ci sentivamo come se fossimo parte di una famiglia. Quindi, è stato un fatto naturale, per noi i suoi giocatori erano i nostri eroi. Volevamo essere proprio come loro, sin da quando eravamo bambini”. Alcuni di loro erano David Vanterpool, che in seguito ha giocato per Coach Ettore Messina al CSKA Mosca, JR Bremer e Marques Green, che in seguito hanno giocato a Milano. È un mondo piccolo qualche volta. Jimmy Baron ha trascorso un anno in Italia, a Roma. E hanno anche giocato insieme a Charleroi, per una stagione. “È stato un anno speciale. La mia prima stagione all’estero è stata difficile. Avevo molta nostalgia di casa. Mio fratello ha detto che avrei dovuto essere felice; che sarebbe stato divertente. Ripensandoci, ci siamo divertiti molto. Penso che fossero passati sette anni da quando era andato all’estero per la prima volta; quindi, non avevamo passato molto tempo insieme, tranne 3 o 4 settimane in estate. È stato fantastico, lui era la guardia tiratrice, io il playmaker. È qualcosa che non avrei mai pensato sarebbe successo, ma è successo. È stato come tornare al college, lui viveva al terzo piano e io al secondo. Ci vedevamo ogni giorno e questo ci ha permesso di recuperare il tempo perso”.

AVVENTURE RUSSE 

Quando si è trasferito allo Zenit San Pietroburgo, Billy Baron ha incontrato Kevin Pangos. “Lui abitava al primo piano, io al secondo piano, le nostre mogli erano molto amiche, i nostri figli sono nati a due settimane di distanza uno dall’altro. Siamo diventati subito amici. Durante il primo mese non avevamo le famiglie (a San Pietroburgo) perché c’era il Covid ed era difficile entrare nel Paese; siamo stati tutto il tempo insieme, notte e giorno, preparavamo la cena insieme, giocavamo ai videogame, guardavamo il football, andavamo all’allenamento insieme. Sono stato fortunato ad avere Kevin con me in quel momento, è stato un anno complicato. Avevamo grande chimica in squadra, siamo arrivati ad una partita dal raggiungere le Final Four. Abbiamo fatto molto più di quanto pensavamo. Quando si è presentata l’opportunità di venire qui e ho sentito che forse ci sarebbe stato anche Kevin, non ho avuto bisogno di altri argomenti”. Pangos ha lasciato San Pietroburgo nell’estate del 2021 per inseguire il suo sogno NBA a Cleveland. Baron è rimasto allo Zenit. La scorsa stagione è stata particolarmente dura, soprattutto quando è scoppiata la guerra in Ucraina e le squadre russe sono state eliminate, a metà stagione, dall’EuroLeague. Eppure, lo Zenit è riuscito a vincere uno storico campionato VTB rimontando da 1-3 e battendo il CSKA Mosca nella settima partita, in trasferta. “È stato un anno mentalmente estenuante, fisicamente punitivo. Tornare a casa a marzo, portare a casa la famiglia, tornare indietro è stato difficile. Spero di non trovarmi mai più in una situazione simile, con la mia famiglia, per due mesi e mezzo cercando di capire cosa stesse succedendo. Vincere, battere il CSKA è stata una specie di ricompensa per tutti i giocatori coinvolti. Guardando indietro, è stato come comprimere tre stagioni in una. All’inizio della stagione abbiamo avuto un sacco di infortuni, poi a metà stagione e poi nell’ultima parte della stagione tanti sono andati via e avevamo quattro o cinque stranieri. Sono state tre squadre diverse in una stagione. Un anno così fortifica il carattere, impari a combattere le avversità. Ecco perché quel titolo è stato speciale”.

FINALMENTE A MILANO

Milano potrebbe essere il luogo della definitiva affermazione di Billy Baron. “Penso di essere cresciuto tanto mentalmente e fisicamente, dentro e fuori dal campo. Le esperienze mi hanno cambiato in modo positivo, penso alle avversità dell’anno scorso, alle condizioni ambientali estreme che ho vissuto in Serbia, in Turchia, occupando ruoli diversi. Milano è il passo avanti perfetto per me, per tentare di vincere in EuroLeague oltre che in Italia. A fine carriera, quando torni a casa e ti ritiri, tutto ciò che vuoi esibire sono le vittorie. Qui a Milano, con tutte queste persone, tutti i compagni di squadra, strutture di questo livello, questo è il motivo per cui lavori ogni giorno”. È stata la conversazione con coach Messina a chiudere l’accordo. “L’allenatore mi vuole pronto, nelle grandi partite. Ed è quello che voglio anche io, voglio le aspettative, le partite di EuroLeague, uscire dalla panchina, partire in quintetto, è lo stesso, lo voglio qualunque sarà il mio ruolo. Sono qui per essere pronto per qualsiasi cosa mi chieda Coach Messina. Questo è ciò che vuole da me, esperienza, ​​tiro, ma vuole anche che giochi duro in difesa, che aiuti la squadra. Qualunque cosa mi chieda, sono qui per dimostrare che sono disposto a farla, portare la palla, prendere uno sfondamento, tirare, passare all’uomo libero, qualunque cosa. Non voglio essere problema in difesa, non voglio essere quello che ti dà problemi in difesa. Ho detto a coach Messina che sono qui per dare tutto, ho 31 anni, è la mia nona stagione all’estero e quello che voglio di più è un titolo di EuroLeague. Sono qui per fare quello che vuole lui, per dare il massimo per tutto il tempo che trascorrerò qui e spero che alla fine si possa alzare un trofeo”.