L’intervista di Luca Baraldi, Ceo di Virtus Segafredo Bologna, rilasciata in data odierna a “La Gazzetta di Parma”:
Due distinte operazioni di salvataggio- condotte tra gennaio 2003 e giugno 2005 – che portano in calce la firma di Luca Baraldi. «Soprattutto se ripenso al senso di solitudine dei giorni iniziali, in particolare a Roma» esordisce il dirigente, attuale amministratore delegato della Virtus Bologna. «Man mano che le cose andavano migliorando, la lista delle persone pronte a salire sul carro dei vincitori si allungava. Ma dopo, appunto. Mai nelle fasi iniziali. Funziona sempre più o meno così. Primi giorni del 2003, ricevo la chiamata dal dottor Livolsi della Rothschild, advisor del gruppo Cirio: mi propone l’incarico di amministratore delegato e direttore generale del club. Penso subito che ero stato messo lì perché doveva essere un ‘prete straniero’, e non uno della Capitale, a celebrare il funerale della Lazio. In ogni caso accetto e comincio a lavorare. Appena tre anni prima la Lazio aveva vinto lo scudetto. La tifoseria era depressa, mortificata da una situazione che l’aveva fatto precipitare in un abisso. I giocatori avevano optato per la messa in mora del club: dei 20 giorni di tempo a disposizione dopo questo atto, al mio arrivo ne erano rimasti 5 o 6. Non c’era tempo da perdere».
Ed è qui che prende forma il “piano Baraldi”.
«Ero giovane, avevo mille idee. Di quell’esperienza ricordo prima di tutto i preziosi consigli del presidente Ugo Longo, principe del Foro di Roma: aveva una sterminata conoscenza del mondo laziale. Mi spiega cosa vuol dire amministrare una società di quel tipo. Nel mio stesso albergo, invece, vivono i commissari della Cirio, chiamati a trovare una soluzione per i creditori. Ci si confronta spesso. Ritengo che si possa mutuare quella stessa idea e applicarla al calcio, proponendo ai giocatori di diventare soci».
Una strada del tutto inesplorata nel mondo del pallone.
«Esatto. Per questo il piano viene accolto con una certa diffidenza: nell’immaginario collettivo non era pensabile che i calciatori diventassero azionisti del proprio club che stava per fallire. Lo stesso, secondo quel piano, avrebbero dovuto fare creditori e fornitori. Era come muoversi in un terreno minato, perché la Lazio era una società quotata in Borsa: esistevano insomma altri vincoli gestionali, al di là di quelli legati al diritto sportivo».
La squadra come la prende?
«Non posso dire sia stato un confronto aspro, ma naturalmente neppure semplice. In quel gruppo c’erano personalità forti: mi piace ricordare i grandi uomini, prima che i calciatori di assoluto valore. Si era formata una commissione con Peruzzi, Marchegiani, Pancaro, Favalli e Giannichedda. E poi i vari Mihajlovic, Simeone. L’allenatore era Roberto Mancini. Erano state fatte loro tante promesse da precedenti dirigenti, che avevano preso tempo: non si fidavano più, era evidente».
Alla fine li convince.
«Ragazzi fantastici. Tutti. Accettando il piano Baraldi salvarono i loro contratti, ma salvarono prima di tutto la Lazio. Anche i fornitori, anziché perdere tutto, scelsero di trasformare i crediti vantati nei confronti del club in azioni da immettere successivamente sul mercato, in modo da rientrare di quanto gli spettava. E la valenza di quell’operazione fu significativa anche sotto un altro aspetto. La salvaguardia dei posti di lavoro. Avverrà la stessa cosa, in seguito, anche a Parma. All’epoca la Lazio aveva oltre 100 dipendenti».
Un miracolo che nel caso di quella Lazio è anche sportivo.
«Il quarto posto ci spedisce ai preliminari di Champions. In estate cediamo Simeone all’Atletico Madrid: intervistato da un quotidiano romano, Diego dice che ero uno dei migliori dirigenti che aveva incontrato nella sua lunga carriera. Lanciamo la campagna abbonamenti mettendoci la faccia, nel vero senso della parola: Longo, io e Mancini. La città interamente tappezzata di manifesti che ci ritraevano insieme. La risposta è eccezionale: 34 mila tessere sottoscritte».
Dalla Lazio al Parma: anche qui succede tutto sotto le feste natalizie.
«Concludo il rapporto con i biancocelesti a dicembre 2003: Mancini aveva rinnovato per tre anni e un’analoga proposta la Banca di Roma, che era l’azionista di riferimento del club, l’aveva fatta a me. Torno a Parma. Quindici giorni dopo c’è il crac Parmalat: mi chiama a casa Enrico Bondi, chiedendomi un incontro. A Collecchio chiudiamo l’accordo in cinque minuti».
Una seconda montagna da scalare.
«Di più. In questa avventura c’era anche un coinvolgimento emotivo molto forte: il Parma è la mia squadra del cuore. Nonostante tutte le difficoltà, arriviamo quasi in Champions. La città è con noi: la vicinanza di tifosi e tessuto imprenditoriale è addirittura commovente».
Il sogno Champions spezzato dall’ex Adriano. Sacrificare l’asso brasiliano fu inevitabile, vero?
«Sì. Quei 24 milioni di euro per la metà di un cartellino che io e Sacchi avevano preso dall’Inter praticamente gratis rappresentarono il capitale che ci consentì di andare avanti (e di salvare il Parma). La cosa bella è che riuscimmo a farlo grazie ad operazioni di mercato compiute durante la mia precedente gestione. Non solo Adriano: avevamo preso anche Gilardino, poi ceduto al Milan nell’estate del 2005, e Bonera. Oltre a Mutu e Bresciano che fecero grandi cose. Avevamo scelto di puntare sui giovani, dopo aver salutato i big: la mia prima operazione da dirigente del Parma era stata la cessione di Buffon alla Juve per 105 miliardi di vecchie lire, seguita a ruota da quella di Thuram per 80».
La salvezza conquistata a Bologna vale come uno scudetto.
«Eravamo una famiglia. Lo ha ricordato di recente pure Sebastien Frey, ragazzo generoso come pochi. Un gruppo unito, con Gedeone Carmignani in panchina e Lorenzo Minotti team manager: potevamo sfidare chiunque. Come alla Lazio, anche qui c’erano ragazzi eccezionali».
Dopo Bologna, Baraldi lascia.
«Avevo fatto una promessa a Bondi: se ci salviamo, rinuncio ai quasi due anni di contratto che restano. Fu una scelta d’ amore. Di questo club, di questa maglia, di questa città. La missione era compiuta: avevamo salvato la società, fuori e dentro il rettangolo da gioco. Era giusto che lasciassi nel momento di gloria. Bondi capì e apprezzò ».
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