A Livorno il basket è sempre di casa. Da Belov a Dado, il ricordo di Claudio Limardi

A Livorno il basket è sempre di casa. Da Belov a Dado, il ricordo di Claudio Limardi

Questa sera l'Italbasket di scena a Livorno. Il ricordo, su sito FIP, di Claudio Limardi

(Fonte FIP) Abbiamo chiesto a Claudio Limardi, Responsabile Comunicazione dell’Olimpia Milano, di raccontarci la sua Livorno, città nella quale è nato e cresciuto e nella quale ha imparato ad amare la pallacanestro. Di seguito la sua splendida testimonianza.

Quella sera di giugno del 1976 noi azzurri ci andammo solo vicini. Credo fosse il 24° tentativo di battere l’Unione Sovietica, che allora era detentrice del titolo olimpico. Aveva lo stesso allenatore, Kondrashin, Sergei Belov era la stella più luminosa, l’omonimo ma non parente Alexander Belov era ancora in campo, lui autore del canestro più famoso nella storia dei Giochi Olimpici quello che decise la finale del 1972 a Monaco, la prima sconfitta di sempre della Nazionale americana, controversa, meritata, polemica che fosse. Ma il giocatore più interessante, nel senso che attirava la curiosità più degli altri, era Volodia Tkachenko, il gigante dell’Armata Rossa. 2.20 di statura, baffi pronunciati, un armadio. Accanto a lui Dino Meneghin sembrava un bambino. Incuteva timore. Era un muro, Tkachenko.

Il ritorno della Nazionale di basket a Livorno mi riporta a quell’inizio estate del 1976. Ero un bambino e di basket avevo solo sentito parlare alla Domenica Sportiva. Tifavo Simmenthal e il mio giocatore preferito era Renzo Bariviera ma solo perché indossava il numero 9, quello dei centravanti. Ma nel giugno del 1976 a Livorno inaugurarono il nuovo palasport, in via Allende che sono sicuro, a quei tempi, non si chiamasse così, che non avesse neppure un nome. Era stato costruito su uno spiazzo a cento metri di distanza dal vecchio e piccolo palasport precedente. Per inaugurarlo organizzarono un quadrangolare.

Mio padre decise di farmi scoprire il basket. Andammo a vedere Italia-Canada. L’allenatore dei canadesi era un americano di New York, Jack Donohue. Solo molti anni dopo avrei scoperto che prima di allenare il Canada aveva guidato Kareem Abdul-Jabbar alla Power Memorial Academy di Manhattan. Tra i suoi giocatori aveva avuto anche Arthur Kenney. Nel 2013, come responsabile della comunicazione dell’Olimpia Milano, organizzai il ritiro della maglia numero 18 di Kenney. Il mondo è piccolo.

L’Italia sconfisse il Canada e tornai a casa soddisfatto. E folgorato. La sera dopo affrontammo l’università di San Francisco. Il centro si chiamava Bill Cartwright. Diciassette anni dopo lo vidi vincere a Phoenix con la maglia dei Chicago Bulls il suo terzo titolo NBA. Non che sapessi chi fosse allora. Lo scoprii anni dopo. Dovevamo andare a vedere solo la prima partita dell’Italia, ma andammo a tutte e tre. L’ultimo giorno perdemmo contro i sovietici, appunto. Il palasport era pieno, io almeno lo ricordo pieno, la gente tifava. L’Italia perse quella volta ma non perse qualche settimana dopo a Roseto degli Abruzzo. Finalmente l’URSS venne sconfitta dopo 25 tentativi. Quella partita la vidi in tv commentata da Aldo Giordani. Nel 1989 avrebbe assunto a Superbasket un ragazzino di Livorno: io. L’ho detto che il mondo è piccolo.

Il palasport che venne inaugurato nel 1976 non è ovviamente lo stesso in cui giocherà l’Italia contro l’Ucraina. Ma è il simbolo dell’era più entusiasmante del basket livornese. Ho avuto la fortuna sfacciata di esserne testimone, di viverne i momenti più esaltanti. Da quel torneo del 1976 in avanti quel palasport sarebbe diventato per me quasi una seconda casa. Potrei limitarmi a dire che ho trascorso lì tutte le domeniche da autunno a primavera per i successivi 11-12 anni. Ma a quei tempi a Livorno andavamo anche a vedere gli allenamenti. Per questo lo considero una seconda casa. Ci sono stato così tante volte che potrei riconoscerne gli odori, descriverne gli angoli, raccontarne le storie. Lì ho visto il primo allenamento livornese di Abdul-Jeelani: nessuno aveva capito che Abdul era la prima parte del cognome non il nome che era Qadir. Ma non importa. Quel pomeriggio eravamo in 3.000 almeno a vedere quell’allenamento. Gli appassionati livornesi della mia generazione possono capire. Jackie Robinson, un altro americano fantastico ma con ginocchia malmesse, dopo una schiacciata casuale, al suo primo allenamento, realizzò che tanto era bastato ai presenti per andare in delirio. Il resto del riscaldamento fu uno show, una specie di gara delle schiacciate in agosto. Le due squadre, la Pallacanestro e la Libertas, si allenavano una dopo l’altra a giorni alterni. I giocatori di una uscivano dal campo incrociando quelli dell’altra. Succedeva anche prima dei derby. Ne ho visti tanti di derby a Livorno, quasi tutti non finivano mai, se non all’ultimo secondo. Erano una questione di orgoglio, di status, personale. La classifica contava solo un poco. Una volta però la Pallacanestro Livorno vinse di 36 punti. Poi andò in Serie A. L’anno successivo la Libertas la raggiunse e anni dopo vinse un derby a sua volta di 39. Sono numeri che a Livorno contano.

In quel decennio abbondante, dalla fine degli anni ’70 all’inizio degli anni ’90, il basket a Livorno è stato una cosa incredibile. Mi spiace all’epoca non aver mai realizzato che si trattasse di una favola, che non poteva durare, che non sarebbe durata. O forse è durata più di quanto avrebbe dovuto. Il palasport conteneva 4.200 spettatori, ma ne entravano molti di più. Non c’erano i posti numerati. Ci si stringeva. In alto, dietro le quattro gradinate c’era spazio, era il territorio lungo cui muoversi per spostarsi all’interno dell’impianto. Lì si creavano regolarmente due o tre file di persone in piedi. E quando non c’era più spazio sulle tribune si sciamava in campo, lungo le due linee di fondo e quella laterale opposta alle panchine. La regola era che si entrava finché si poteva. Nel 1989 vidi la famosa Gara 5 della finale scudetto, quella del canestro tardivo di Andrea Forti, da inviato di Superbasket. Era il mio primo anno da giornalista “vero”. Se guardate oggi le immagini su YouTube di quella partita capirete di cosa parlo. Guardate il leggendario tuffo di Bob McAdoo che si conclude su una scia di umidità, in bracco ai tifosi sistemati lungo la linea di fondo.

Sia la Pallacanestro che la Libertas conquistarono la promozione in A2 giocando in casa i rispettivi spareggi. Una volta perse Padova e un’altra Bergamo. I tifosi in campo, nel finale punto a punto, muovevano il canestro avversario. Roberto Natalini, grande tiratore di Bergamo, incredibilmente, lo ricordo ancora oggi, segnò da fuori beffando il canestro oscillante da destra a sinistra, da sinistra a destra. Ma la Libertas vinse lo stesso, trascinata da un livornese di 20 anni di personalità dirompente, Alessandro Fantozzi. In quegli anni ho visto Paolo Bianchi, scuola Simmenthal, segnare 46 punti contro Montebelluna in Serie B e poi rinunciare a tirare negli ultimi minuti. Non voleva esagerare. Jackie Robinson schiacciare con una potenza tale da distruggere il tabellone. Vidi Mike D’Antoni sbagliare sette tiri da tre su sette tranne l’ultimo con cui l’Olimpia vinse contro l’Allibert. Dan Peterson uscì dal campo con il pugno alzato. Ho visto tante cose che potrei scrivere un libro o andare avanti per ore.

Il basket a Livorno esisteva già da tanti anni, aveva già avuto momenti di gloria. Mi raccontarono di un americano di nome Bill Johnson. Una domenica doveva presentarsi al palazzetto, quello piccolo, per affrontare il Simmenthal, ma di lui non c’era traccia. Lo ritrovarono nella pensione sul lungomare in cui viveva, ubriaco. Lo sbatterono sotto la doccia e lo portarono alla partita. Dominò la gara e diede alla Libertas una storica vittoria sul Simmenthal.

C’erano già stati tra i giocatori livornesi tanti incredibili talenti. Il migliore era stato Dado Lombardi. Dalla palestra dei Salesiani, nel quartiere di Coteto, arrivò subito in Serie A, segnò 34 punti alla Virtus Bologna a 15 anni e a fine anno lo acquistarono. Lui come me ha vissuto da livornese in esilio. Puoi portare un livornese lontano da Livorno, ma non potrai mai portare Livorno lontano da un livornese. La scorsa estate, il Comune di Livorno ha appeso lungo il Viale Italia una lunga serie di stendardi raffiguranti i livornesi eccellenti, tra cui tanti atleti, lo schermidore Nedo Nadi, il grande Armando Picchi, l’otto di canottaggio, gli Scarronzoni, che vinse un argento olimpico. Penso che anche Lombardi avrebbe meritato di esserci. È stato uno dei più grandi giocatori della nostra storia.

Il basket ebbe talmente successo a Livorno che quel palasport, quello del primo allenamento di Abdul-Jeelani, del tuffo di McAdoo, delle ammucchiate selvagge, non bastava più. Per questo ora ne esiste un altro, inaugurato a fatica dopo molti anni, in ritardo. È sempre sembrato fuori posto, fuori tempo, fuori moda. Ma Pallacanestro e Libertas l’hanno riempito una tantum poche settimane fa per il derby di Serie B. A Livorno il basket ha funzionato bene quando ci sono state due squadre a darsi battaglia. Non importa se si dividono le risorse. Tutti sanno che la fusione fu una pessima idea. È così anche adesso, per questo possiamo sognare. Sognare persino che il ritorno della Nazionale apra una stagione lunga di emozioni. Come successe nel 1976. Tutto cominciò così, con una partita della Nazionale e tanti destini incrociati.