Troy Daniels viene dalla Virginia, uno stato lungo la costa orientale degli Stati Uniti che soprattutto negli ultimi venti anni ha prodotto un gran numero di giocatori di alto livello e alimentato i risultati delle università locali. Lui ha frequentato Virginia Commonwealth, da non confondere con Virginia, quella che ha vinto il titolo NCAA nel 2019 e per cui ha giocato anche Devon Hall. Ma durante il suo percorso collegiale, Daniels ha giocato una Final Four, quando Shaka Smart ha dato una forte impronta alla scuola con la sua difesa “Havoc”, che letteralmente aveva come obiettivo quello di creare confusione negli avversari. Per questo, per il suo passato, le sue origini, Daniels rifiuta l’etichetta di semplice tiratore. Può essere anche un valido difensore e un uomo squadra.
- Troy, parliamo dei quattro anni trascorsi a Virginia Commonwealth.
“Giocare quattro anni a VCU è stato fantastico. Giocavo per Shaka Smart, è un grande allenatore, ma tutto lo staff tecnico, tutti gli assistenti erano grandi allenatori. L’atmosfera che ha creato, l’atmosfera Havoc + che ha creato è stata grandiosa. Nel 2011, il mio secondo anno, siamo andati alle Final Four per la prima volta nella storia della scuola. Abbiamo scritto la storia, è stato un viaggio esaltante. Ma in generale passare quattro anni al college e farlo a VCU è stato fantastico”.
- Sei nato tiratore, già in quelle stagioni era chiaro.
“Per tutta la mia carriera sono stato riconosciuto come un tiratore. Essere in grado di farlo con VCU, battere alcuni record scolastici, è stato un onore. Ma in realtà sono stato in grado di farlo ovunque sia andato, anche nella NBA in differenti squadre ho stabilito qualche record. Penso che sia il duro lavoro che ho svolto in palestra a ripagarmi, le ore trascorse lavorando sul mio talento, non lasciando che qualcuno provasse a buttarmi giù. Ora spero di riuscire a stabilire qualche record anche qui”.
- Ti aspettavi di essere scelto al draft NBA?
“Sì, mi aspettavo di essere scelto uscendo dal college. Non è successo, ma questo non mi ha fermato. Quando sei bambino, quando cresci, come tutti volevo giocare nell’NBA. Sfortunatamente, non è successo attraverso il draft, ma passando dal retro. È stata una specie di fortuna nella disgrazia, perché ho dimostrato che non devi per forza essere scelto per giocare nell’NBA. Ci sono altre strade percorribili per arrivarci. Sono stato in grado di provarlo e di avere lo stesso una grande carriera NBA”.
- Il canestro della vittoria nei playoff per Houston, da rookie, è stato il primo grande momento della tua carriera da professionista.
“È stato un momento speciale. Ad essere onesto, ricordo che Kevin McHale, un grande giocatore, un Hall of Famer, un grande allenatore, ha guardato in fondo alla panchina e mi ha chiamato per entrare. E io ho detto “Io? Sono un rookie!”. Ma sentire la sua fiducia nel mettermi in campo in quella situazione è stato fantastico. Segnare quel canestro, è stata una sensazione indescrivibile. Dopo la partita, ho preso il telefono, ma in realtà si era bloccato perché aveva troppe notifiche in corso. È stata una grande opportunità, un grande momento della mia carriera. Mi considero fortunato di poterne parlare”.
- Perché hai cambiato squadra così spesso?
“Se devo tirare a indovinare dopo sette anni, otto anni, direi che il mio contratto è stato sempre abbastanza facile da spostare. Quindi, essendo un grande tiratore, e tutte le squadre vogliono un grande tiratore, con i contratti che avevo, è sempre stato facile spostarmi. Ok, prendi questo giocatore per quest’altro giocatore, è semplice. Non sono sicuro di quali fossero le vere ragioni, ma per me passare da una squadra all’altra ha sempre significato che ogni squadra vuole un tiratore pronto in panchina e che io lo ero. Quando si arriva al termine degli scambi, se l’allenatore non ti sta facendo giocare in quel momento, c’è sempre un’altra squadra che invece ti vuole. Ho capito questo aspetto del gioco. Sono stato scambiato quattro o cinque volte durante la mia carriera, ma ognuna mi ha reso più forte come giocatore. Ho sempre saputo che puoi cambiare squadra e che devi essere pronto ogni volta che chiamato. E così sono stato in grado di viaggiare in tutto il mondo”.
- L’Anello di Campione NBA ricevuto dai Lakers cosa ha significato?
“Per me per giocare per una grande organizzazione come i Los Angeles Lakers ha rappresentato un’opportunità unica. C’è tanta storia in quell’organizzazione. Ho giocato 40 o 50 partite con loro, poi mi hanno trasferito ai Nuggets durante l’anno, ed è stato l’anno del Covid. Ma consegnarmi l’anello dimostra quanto siano di prima classe. Da bambino, come ho detto, volevo giocare nella NBA, tutti vogliono essere campioni NBA, e ricevere quell’anno ed essere parte di quella squadra è stata un’esperienza incredibile, un qualcosa che non potrò mai dimenticare. E ovviamente non dimenticherò mai l’anello, perché è davvero bello, ma non dimenticherò in generale quei momenti”.
- Hai giocato accanto a grandi campioni. Incluso LeBron James.
“Hanno tutti delle caratteristiche anche caratteriali diverse, penso a James Harden. E Nikola Jokic è uno dei miei giocatori preferiti da guardare e con cui giocare. Jamal Murray, ero lì quando ha avuto una serie di gare incredibili nei playoff. Ma penso che il miglior giocatore con cui abbia mai giocato ovviamente sia LeBron. Non è solo pubblicità, lui è davvero così forte. Quando giocavo per i Lakers, era sempre il primo in palestra e l’ultimo ad uscire, e succedeva ogni giorno. E questo spiega perché è uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi”.
- La differenza maggiore tra NBA ed EuroLeague qual è?
“Penso che la più grande differenza tra NBA ed EuroLeague, ma lo dico in senso positivo, sia l’aspetto fisico. Il gioco magari non è così veloce, anche se a volte può diventare tale, ma la fisicità cambia davvero il modo di giocare. In NBA tocchi un giocatore e potrebbero fischiarti il fallo, ma qui puoi spingere e fare, non dico quello che vuoi, ma fino a un certo punto puoi essere davvero fisico. Può davvero cambiare il modo di giocare. Le mie prime due o tre settimane, ho avuto modo di sperimentarlo. È dura. Una volta che ci si abitua, il gioco diventa più divertente. Rende ogni momento più significativo, perché ogni possesso conta, ogni partita conta. Vengo in palestra ogni singolo giorno concentrato. Non dico che non sia come in NBA, ma a volte lì hai tempo per divagare, ma qui non puoi smettere di concentrarti su ogni possesso, su ogni singola giocata. In generale, la più grande differenza credo sia la fisicità”.
- Prime impressioni su Milano sia come club che come città?
“È un’organizzazione di prima classe; fanno le cose nel modo giusto qui. I miei compagni di squadra, tutti, sono stati fantastici ad aiutarmi fin da quando sono arrivato. Coach Messina e il suo staff tecnico sono fantastici, capiscono che qui è tutto molto diverso provenendo dalla NBA, quindi hanno lavorato con me, sono stati pazienti con me. Lo apprezzo davvero. Non so cosa avrei fatto se non fossero stati pazienti con me. La differenza più grande, a livello di città, confrontando Milano con altre città americane, è che qui c’è molta più storia, e tutti sono gentile, tutti vogliono bene alla squadra. Anche il solo passeggiare per Milano è davvero incredibile. Ho amato questa città dal primo giorno. Porterò qui la famiglia in modo che possano vedere le stesse cosa. È una delle città che volevo visitare prima di venire, ora sono felice di vivere qui”.
- Molti sono sorpresi da quanto lontano riesci a tirare.
“Tirare da molto lontano è sempre stato normale per tutta la mia carriera. Quando ero a VCU, Coach Smart mi diceva che avevo un dono, un dono che non puoi insegnare; quindi, voleva che lavorassi su questo dono ogni singolo giorno. E una delle cose che voleva facessi ogni estate era di eseguire da 500 a 1000 tiri ogni singolo giorno. Da lontano, da vicino. Penso che il lavoro sia stato ripagato. E questo è qualcosa che sto cercando di continuare a a fare anche qui. E poi devo dire che nella NBA la linea dei tre punti è un po’ più lontana quindi per me qualche volta è come eseguire un lay-up, ad essere onesti”.
- C’è una ragione dietro il numero 30 che indossi da sempre?
“Sì, c’è una storia, c’è una storia riguardante il mio numero 30. Al liceo, quando ero una matricola, e poi negli anni successivi e al college, l’ho sempre indossato. Volevo costruire un legame attorno a quel numero, come per il mio nome, volevo indossare quel numero e costruirci una storia, una specie di eredità. Spero che, quando un giorno avrò un figlio, così come mia figlia, entrambi sappiano che il padre indossava il numero 30, quindi lo terrò stretto sempre, anche qui”.
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