“Tutto è cominciato con una telefonata di Coach Ettore Messina, la sua visione, la voglia di costruire qualcosa di importante, di cui voglio far parte. A Francoforte avevo cominciato giocando da ala forte, poi quando alla fine della mia stagione da rookie sono venuto a Trento mi hanno spostato nel ruolo di guardia e l’ho occupato anche l’anno successivo. È stata un’esperienza formativa di cui non smetterò mai di essere grato”. Shavon Shields arrivò a Milano in piena era Covid. Era l’estate del 2020, aveva appena vinto la Liga con Vitoria nella Bolla di Valencia. Era un giocatore affermato, ma non ancora una stella. Quattro anni dopo è il primo realizzatore in EuroLeague nella storia dell’Olimpia che in questa competizione è cominciata negli anni ’50. Bob McAdoo lo precedeva e ora lo segue. Erano altri tempi, altro basket, altro numero di partite, ma per circa 35 anni nessuno era riuscito a spodestare McAdoo. Vale tanto. “Sono contento per lui – dice Nicolò Melli con il quale ha legato in modo forte -, perché abbiamo un bellissimo rapporto, ma soprattutto so quanto ci tenga a questa squadra. Non devo dire io quanto sia formidabile come giocatore. Adesso allungherà e diventerà magari irraggiungibile”.
“Cercavamo un giocatore che potesse giocare sia da guardia che da ala piccola – ricorda Coach Ettore Messina -, che avesse margini di miglioramento e una buona reputazione. Shields aveva fatto molto bene a Trento e stava facendo bene a Vitoria dove vinsero anche il campionato in quel periodo. Mi sembrava si adattasse bene alla squadra che stavamo costruendo, con Delaney, Rodriguez, Punter, poi soprattutto con l’arrivo di Datome costruimmo un pacchetto di esterni che non a caso è stato decisivo nel conquistare l’accesso alle Final Four. Ricordo che gli dissi che da noi avrebbe avuto la possibilità di giocare molto di più il pick and roll cosa che non faceva mai a Vitoria; quindi, sarebbe diventato molto più una guardia e molto meno un’ala per avere un maggior impatto a livello EuroLeague come poi è stato”.
Ma prima di arrivare a Milano, prima ancora di Francoforte e Trento e Vitoria, la parabola di Shavon Shields cominciò addirittura nel Nebraska. Non è nato lì, ma è lì che si sono conosciuti i genitori, Will Shields e Sonya. Lui americano nato nel Kansas ma cresciuto in Oklahoma, lei danese, in America per motivi scolastici. Will Shields era un giocatore di football, un uomo di linea, di quelli che devono proteggere il quarterback. Come tale, vinse l’”Outland Trophy” riservato al miglior giocatore di college del ruolo. Fu All-America. Nebraska ritirò la sua maglia numero 75. Il resto è storia: nel 1993 fu scelto al terzo giro dai Kansas City Chiefs, partì dalla panchina nella prima partita della sua carriera nella NFL dopodiché per 14 stagioni non ha mai più saltato una gara diventando uno dei più grandi giocatori della storia nel proprio ruolo con otto apparizioni al Pro Bowl e infine la nomina nella Hall of Fame del football. “Per me è tutto quello che ho visto. Tuo padre può essere un contabile, uomo d’affari o un idraulico, il mio era un giocatore di football, è tutto quello che ho conosciuto e con cui avevo familiarità. Anche io ho pensato di giocare a football, ho anche provato per un paio di anni, ma ho visto che non faceva per me. Lui mi ha insegnato come comportarmi, ad essere un professionista, a venire in palestra e fare il tuo lavoro ogni giorno”.
Shavon non è esattamente fuggito dalla leggenda del padre. Quando è diventato un giocatore di basket, ha scelto di andare a Nebraska nella stessa scuola del padre e della mamma Senia. Quattro anni senza mai giocare il Torneo NCAA ma quattro anni di alto livello per lui. Da senior un brutto infortunio, più spaventoso che brutto, l’ha danneggiato nel cercare un’opportunità nella NBA. “Quando cresci negli Stati Uniti sogni di giocare nella NBA, ma questo mi ha dato la possibilità di venire in Europa e tentare di diventare il miglior giocatore che potessi diventare e vincere il più possibile perché alla fine quello che conta è vincere. L’obiettivo sotto questo aspetto non è mai cambiato, che fossi in America o in Europa”.
Ma venire in Europa non è stato uno choc culturale come è stato per tanti connazionali. “No, ero già stato in Europa tante volte, conoscevo la cultura europea, grazie a mia madre. Da questo punto di vista sono stato avvantaggiato”. La prima tappa è stata Francoforte, poi è toccato a Trento alla fine del primo anno e paradossalmente la crescita di Shields non è mai stata chiara a nessuno quanto lo sia stata a Milano. “Il primo anno non abbiamo mai neppure pensato che potesse giocare il pick and roll – ricorda Mario Fioretti che era già sulla panchina di Milano – Il problema era avere un corpo grosso, un giocatore fisico da mettergli addosso e contenere il suo uno contro uno. A quei tempi era chiaro che aveva potenziale e capacità realizzative, ma da allora ha aggiunto tante cose al suo arsenale”.
Shields ha giocato due finali con Trento, poi è andato in Spagna e al secondo anno a Vitoria ne ha giocata una terza vincendola. Nel 2020 è arrivato a Milano, affermato ma non ancora uomo da quintetto All-EuroLeague come poi è diventato e nessuno pensava potesse diventare una figura storica per l’Olimpia, come dicono già oggi i due scudetti e le due Coppe Italia vinte. Addirittura, nelle Final Four di Supercoppa nel 2021, Shields non era tra i sei stranieri impiegati. “In realtà – spiega Coach Messina – volevamo proteggere, rispettare, i giocatori che erano già con noi e avevano fatto bene come Vlado Micov e Kaleb Tarczewski. Tenemmo fuori sia lui che Zach LeDay. Fu una questione di seniority come nei college americani che ambedue capirono perfettamente. Poi ci fu la sfortuna dell’infortunio di Micov in finale dopo pochi minuti. Non avevamo Shields e non avevamo Micov. Fortunatamente, vincemmo lo stesso”. Fatto sta che da quel momento in avanti, il ruolo di Shields è sempre stato fondamentale per la squadra.
“L’evoluzione di Shavon – riflette il Coach – è cominciata quando ha capito come poter essere un giocatore di impatto sui due lati del campo. Era già abituato a prendere il miglior attaccante avversario, ma a Vitoria in attacco era un giocatore di complemento, una quarta o quinta opzione. Qui è diventato sempre più una prima opzione soprattutto quando ha un mismatch da sfruttare. Già a Monaco all’inizio dell’EuroLeague segnò il canestro della vittoria, da tre punti. Bisogna riconoscergli di aver lavorato tanto con Fioretti nel tiro da tre e questo gli ha permesso di diventare un attaccante più consistente”. La sua fiducia nel tiro da tre è spiegata dalle cifre: nel suo primo anno di EuroLeague a Vitoria eseguiva 2.2 tiri da tre per gara, poi 3.1 nel secondo anno, 3.5 nel primo anno milanese, 4.1 nel secondo (nel terzo ha giocato solo 10 partite per infortunio fermandosi a 2.9 tiri per partita). Quest’anno, ne esegue 6.7 di media, un balzo in avanti tremendo, sostenuto dalle cifre. Attualmente, ha il 42.8% dall’arco, sostanzialmente come nel 2020/21 ma allora aveva circa la metà dei tentativi. A livello di media punti e valutazione questa è di gran lunga la sua stagione migliore. Ha avuto momenti di onnipotenza balistica come nel mese di novembre in cui tra campionato ed EuroLeague ha tirato con il 55.7%. A novembre ha avuto il 50.1% su oltre otto tentativi a partita.
Che significato attribuire quindi a questo record? “Sono soddisfazioni personali che ti fanno stare bene, soprattutto a fine carriera. Ti permettono di essere ricordato un po’ più a lungo e di dimostrare che qualcosa di buono hai fatto. Ovviamente, sono fatti per essere battuto. Nessuno potrà mai cancellare Bob McAdoo perché quel record l’aveva fatto vincendo due titoli europei. Questo è impareggiabile. Però Shavon ha anche giocato una Final Four e ha segnato i suoi punti in un contesto molto più impegnativo di quello che era una volta. Penso che avrà bei ricordi anche lui”, dice Messina.
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