Prima di Kye Hines, prima che i centri di dimensioni relativamente piccole diventassero popolari, c’era Mason Rocca. Anche a Milano, c’era Mason Rocca. Due metri di statura, forse meno, ma tanto coraggio, nessuna paura di prendere un gomito in faccia, neppure da Yao Ming, che dopo un memorabile Italia-Cina nella Coppa del Mondo del 2006 mimò il gesto che forse avrebbe voluto attuare in partita, infastidito dalla sua presenza. Rocca era così: leale, generoso, combattivo. Veloce a correre in contropiede, più veloci degli avversari, più ricco di energia e desiderio, perché era l’unico modo per svettare in un mondo nel quale non avrebbe dovuto avere tutto questo successo.
Rocca ha giocato in Nazionale, è stato Capitano dell’Olimpia, ora è membro della sua Hall of Fame. E quando ha cominciato a giocare non sapeva neppure se sarebbe riuscito ad andare oltre il college. Per questo andò a Princeton University, nella Ivy League, un ateneo adatto a futuri Premi Nobel più che futuri atleti. “Gli studi erano il Piano A”, ammette. Gli si aprì un mondo quando venne in Italia per un tour estivo. Gli spiegò tutti Sidney Johnson: giocava a Gorizia ma poi sarebbe passato anche da Milano. Come anni prima fece Bill Bradley, anche lui un ex studente di Princeton. Le analogie con Rocca percorrono la storia dell’Olimpia: è nato ad Evanston, sulle rive del Lago Michigan, appena fuori Chicago. Come Dan Peterson che l’avrebbe allenato nel 2010/11.
Mason, come hai scoperto il basket?
“La mia passione è nata quando avevo 8 o 9 anni. Adesso, i ragazzi cominciano prima, ma io giocavo soprattutto con i miei amici. Ero alto, così giocare a basket poteva sembrare naturale, ma mi piaceva davvero. Praticavo tanti sport, ma il basket di più. Mi piaceva il dinamismo, il fatto che si tocca tanto la palla. Quando sono diventato grande, al momento di scegliere, ho preso la strada che mi attraeva maggiormente”.
Ma al momento di andare al college hai optato per la Ivy League, quindi per una scuola accademicamente eccezionale come Princeton. Ma non cestisticamente.
“Non ero sicuro del mio futuro nel basket. Ho sempre pensato che fosse saggio avere un Piano B, ma quando sono andato a Princeton per la verità quello era il Piano A. Studiavo ingegneria, ero bravino soprattutto in matematica. Ho scelto quella strada, ma sapevo anche che Princeton aveva una tradizione nel basket importante. Questa combinazione di fattori mi ha portato lì”.
Quando hai capito che avresti potuto diventare un professionista?
“Dopo il mio secondo anno a Princeton. Siamo venuti in Italia a fare un tour estivo. Un mio ex compagno di squadra, Sidney Johnson, giocava a Gorizia. Abbiamo giocato contro la sua squadra e in quei giorni ci ha fatto vedere come funzionava la sua vita. In quel momento ho pensato fosse tutto bello e mi è nata l’idea di tornare un giorno. Abbiamo giocato anche contro la Teamsystem Bologna, che aveva Dominique Wilkins, e lì ho capito che questo è un paese incredibile e che mi sarebbe piaciuto sperimentare quella vita un giorno”.
Venendo dall’America hai scelto subito l’Italia. E’ stata anche una questione di origini?
“Sapevo che sarebbe stato possibile prendere la cittadinanza. Ho fatto qualche ricerca sulle mie origini e il mio agente Massimo Rizzo mi aveva confermato che, trovando tutti i documenti, avrei potuto giocare da italiano e magari arrivare in Nazionale. Quello era un sogno che mi ha guidato”.
La prima tappa è stata Jesi.
“Jesi è stato un inizio di carriera perfetto. Nel primo anno c’erano tanti stranieri, cinque in A2, sette in Serie A. Io ero il quinto stranieri di Jesi, l’ultimo arrivato. Però abbiamo giocato i playoffs e il livello del campionato era già alto. L’anno successivo abbiamo fatto un passo avanti, raggiungendo la semifinale, e nel terzo anno siamo andati in finale contro la Virtus Bologna e conquistato la promozione. Per me quel tipo di progetto, con un nucleo base e qualche addizione ogni anno, ha rappresentato una lezione su come si possa costruire una squadra vincente. Dopo sono andati a Napoli, ma mi sento fortunato di essere stato parte di un progetto vincente, in una società che voleva crescere”.
Così sei diventato jesino?
“Mi sono trovato bene dappertutto, ma lo stile di vita di Jesi mi piaceva particolarmente. È un posto tranquillo, si mangia bene, ho anche comprato un pezzo di terra in campagna. Durante la mia carriera abbiamo messo a posto quella casa, poi mio fratello è venuto a trovarmi e ora è ancora lì, ha sposato una ragazza di Jesi. Tutto è iniziato per caso: quando mi hanno proposto Jesi, non sapevo nemmeno dove fosse, non mi sembrava nemmeno un nome italiano. Ma sono stato fortunato”.
Da Jesi a Napoli nel momento migliore della sua storia recente. Cosa significa giocare e vincere per una città così passionale?
“Napoli è stato tutto bellissimo. Arrivai che la società stava cercando di fare grandi passi. Il primo anno ho giocato in Uleb Cup, la mia prima esperienza internazionale, poi abbiamo vinto la Coppa Italia e giocato in EuroLeague. La squadra di calcio in quegli anni era in difficoltà e noi abbiamo raccolto un po’ dei loro tifosi. Siamo stati fortunati, ma la passione dei napoletani è eccezionale. Quando abbiamo vinto la Coppa Italia hanno festeggiato in tanti e ancora si parla di quel trofeo. Quest’anno mi hanno chiamato quando si sono ripetuti. Hanno ridestato tanti ricordi”.
Cosa ha significato coronare il sogno di vestire la maglia azzurra?
“È stato il momento migliore della mia carriera. Rappresentare l’Italia, in un torneo come i Mondiali, in Giappone, è stato emozionante. Ricordo che prima della partita con gli Stati Uniti, ho cantato l’inno italiano. I miei compagni mi avevano detto che, se avessi giocato con la Nazionale, avrei dovuto conoscere l’inno. E l’ho imparato. Poi è cominciato l’inno americano e lì dovevo stare zitto. Avevo la pelle d’oca. E poi giocare contro Yao Ming, LeBron James è stato spettacolare”.
Di te si ricorda quella prova eroica contro Yao Ming quando il centro cinese era al top.
“Prima della partita, quando Recalcati stava spiegando chi doveva difendere contro di lui, disse che fermare Yao Ming sarebbe stato impossibile ma dovevamo tentare di contenerlo cercando di farlo… impazzire, non lasciare che la palla gli arrivasse facilmente. Ho cercato di correre come un matto, avanti, indietro, avanti, indietro, per rallentarlo. Poi in attacco ho provato a punirlo o, meglio, a farlo stancare correndo tanto, in contropiede. Qualcosa sono riuscito a fare, poi penso abbia segnato lo stesso 30 punti (27 in realtà-ndr). Alla fine, quando ci siamo scambiati il cinque lui ha fatto finta di darmi una gomitata in faccia. E c’è una foto che lo ritrae in quel gesto. È stato davvero un bel ricordo: giocare contro il giocatore più famoso del momento, un cinese, in Giappone, davanti a tanti tifosi cinesi, è stato un momento indimenticabile”.
Eri un centro piccolo, come sopperivi alla mancanza di chili e centimetri?
“Adesso si parla molto di smallball, anche nella NBA ad esempio Golden State gioca con Draymond Green da centro. Eravamo all’inizio di un processo di realizzazione che quello che perdi in altezza lo recuperi in velocità. Cercavo di utilizzare la mia velocità. Sicuramente a rimbalzo, in post basso dovevo sopperire con l’energia perché ero in difetto di centimetri e peso. Ma in contropiede, nel pick and roll, avevo dei vantaggi e sono riuscito così a riequilibrare”.
Masterizzare l’arte del gancio serviva a questo? A riequilibrare i duelli con gli altri centri?
“Sì, il gancio ho imparato a eseguirlo ai tempi di Princeton, perché lì avevamo un sistema di gioco che portavo il centro in post basso, ma anche lì giocavamo contro squadre più grosse e più atletiche. Così fin dal primo giorno i lunghi dovevano imparare il gancio. E’ servito tempo. Non segnavo tanto con quel tiro, ma potevo usarlo”.
Come è nata la scelta di Milano?
“La società era in una fase di transizione, ma con un nome come quello di Giorgio Armani di proprietario ho pensato che volessero fare qualcosa di importante. Ho pensato che ci fosse la possibilità di costruire qualcosa di significativo e mi sono convinto. Anche Siena e Roma mi volevano, ma ero arrivato ad un momento della carriera in cui volevo vincere, andare in alto, ma anche far parte di un progetto emergente in una piazza importante come Milano era un fatto stimolante”.
I tuoi anni all’Olimpia sono quelli in cui sono state gettate le basi per i successi futuri?
“Eravamo all’inizio della storia di questa società, c’era molto da costruire, ma ogni anno abbiamo fatto dei passi in avanti. Ma penso che la base l’abbiamo costruita in quel periodo, abbiamo recuperato i tifosi. Prima che il Sig. Armani diventasse proprietario i tifosi erano un po’ persi, non c’era il calore di adesso. Ma li abbiamo recuperati, siamo andati in finale abbiamo riacceso il fuoco, la determinazione di voler vincere e crescere. Sono orgoglioso di aver fatto parte di questo progetto che ha portato l’Olimpia a tornare ad essere una grande società. In quegli anni Siena era fortissima. Anche noi lo eravamo, ma ci mancava sempre qualcosa. Siamo arrivati in finale tre volte, è stato importante anche senza vincere”.
Hai giocato con Nicolò Melli.
“Melli non mi sorprende che sia arrivato così in alto. Aveva 20 anni, ma aveva talento, grinta, voglia e intelligenza. Io giocavo contro di lui in allenamento e dovevo usare tutti i trucchi per contenerlo, perché lui giocava dentro, fuori, era forte. Sapevo che avrebbe fatto strada”.
Com’è stato essere allenato da Dan Peterson?
“Non me l’aspettavo. C’era Piero Bucchi. Coach Peterson venne chiamato a sostituirlo. Io e Dan veniamo dalla stessa città Evanston. Coach Peterson ha fatto cose enorme qui a Milano, ma certo un’assenza dalla panchina di tanti anni era un fatto anomalo. La prima partita abbiamo subito usato la sua storica difesa 1-3-1 ed era la prima volta che la vedevo. Abbiamo vinto Gli altri non sapevano cosa fare. Le volte successive, non ha funzionato allo stesso modo. Ma ogni allenamento Dan raccontava una cosa, una storia. Si capisce che ha visto tutto, aveva un bagaglio di esperienza incredibile. Non siamo riusciti a giocare insieme, a mettere le cose a posto, ma è stato divertente. Ho imparato tantissimo anche da lui”.
Far parte della Hall of Fame dell’Olimpia è speciale?
“È un grande onore. Quando vedo la lista dei giocatori passati da qui, Dino Meneghin, Bill Bradley, tanti altri. Il mio nome in questo gruppo è surreale. Sono orgoglioso del tempo che ho trascorso a Milano. Anche se non abbiamo vinto, sono stato parte di una società che ha fatto la storia in Italia e in Europa. Tornare qui, dopo il ritorno negli Stati Uniti, vedere i miei ex compagni di squadra, i miei amici che stanno facendo grandi cose, è emozionante. Ringrazio di questo il sig. Armani, Ettore Messina per avermi permesso di entrare in questo gruppo eletto”.
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