La Supercoppa rappresenta il primo test per misurare le nuove squadre.L’Olimpia l’ha vinta quattro volte, di fatto consecutive, perché non l’aveva vinta quando non aveva partecipato. Con questo ruolino di marcia si era avvicinata il 21 settembre scorso all’Unipol Arena di Casalecchio per giocare la finale. Da cinque giorni, la squadra era segregata alla periferia di Bologna, a 11 uscite della tangenziale di distanza dall’arena. E perse.
Lo scarto, sei punti, non era il vero specchio di quanto visto in campo. L’Olimpia aveva inseguito per tutta la gara, si era affidata ad un certo punto ad una folata di Sergio Rodriguez, ma non era riuscita a imporre la propria difesa e l’attacco non era stato abbastanza producente. Perdere la Supercoppa non è la fine del mondo, ma si trattava della quinta sconfitta consecutiva contro la stessa squadra. Quella sera a Bologna, la squadra rimase in campo fino alla fine della premiazione. Una sorta di autopunizione. Gli occhi pieni della gioia avversaria, delle feste, le orecchie riempite di sfottò. Lo scudetto nella testa di tanti giocatori è stato vinto quella sera, alla periferia di Bologna.
Sono passati nove mesi da quella sera. Ed è cambiato tanto, se non tutto. La pandemia è stata debellata, almeno in gran parte, e il mondo è tornato a marciare regolarmente. Una guerra è scoppiata in Ucraina e da quella guerra sono scaturite le defezioni di giocatori in fuga che hanno rinforzato, di tutte le squadre, proprio la Virtus Bologna che ha potuto aggiungere a stagione in corso due fuoriclasse come Daniel Hackett e Tornike Shengelia. La stessa Virtus ha vinto l’Eurocup, rendendo la propria stagione vincente, ha vinto la regular season senza mai perdere in casa, ha battuto l’Olimpia nella gara di Bologna, seppur condizionata dal Covid come quella di andata. Nove mesi dopo, la Virtus sembrava ancora più forte e difficilmente battibile, con il fattore campo a favore.
Ma in quei nove mesi, durante i quali l’Olimpia ha perso per strada Riccardo Moraschini, Dinos Mitoglou e per infortunio anche Malcolm Delaney, oltre a vincere la Coppa Italia – l’appuntamento fallito dall’avversaria -, nella palestra del Mediolanum Forum si è lavorato. E tanto. La squadra dello scudetto numero 29 non era baciata dal talento offensivo, ma è stata una squadra dura, orgogliosa, forte mentalmente, in grado di eseguire il piano partita senza scomporsi, come ha detto tante volte Gigi Datome. Forse la squadra difensivamente più forte che l’Olimpia abbia schierato dai tempi di Dino Meneghin e Mike D’Antoni. Una squadra che, piegata dagli infortuni, ha obbligato l’Efes bicampione d’Europa a vincere due partite in casa nell’ultimo minuto o quasi per vincerne l’eroica resistenza. Una squadra che, dura a morire, energica, seria, ha conquistato il pubblico stabilendo una connessione che non si vedeva da molto tempo. I tre esauriti della finale sono figli di tante situazioni: la fine del campionato di calcio, l’importanza dell’evento, la rivalità storica con Bologna. Ma il calore, la passione, la voglia di contribuire alla vittoria non sono stati dettati dalle circostanze. No, Milano ha apprezzato la squadra, si è immedesimata nel suo sforzo supremo, ha combattuto al suo fianco. Quando l’allenatore avversario ha chiesto alla propria tifoseria, prima di Gara 5, di assicurare lo stesso supporto ricevuto dall’Olimpia, a qualcuno è sfuggita la sottile ironia della situazione. Nella storia del basket, nessuno, soprattutto a Bologna, ha mai invidiato all’Olimpia il sostegno della sua gente. Adesso è così.
L’Olimpia ha vinto le prime 10 partite di questa stagione italiana, poi con l’EuroLeague a pieno regime, come capita con questa formula e questo numero di partite (84), ha cominciato a lasciare qualcosa per strada e ha dovuto conquistare lo scudetto senza il vantaggio del fattore campo. Era dalla stagione 2011/12 quando perse in finale contro Siena, che l’Olimpia non affrontava una serie di playoff senza il beneficio del campo. Poteva succedere nel 2018, ma la Reyer Venezia, vincitrice della regular season, venne eliminata da Trento. Il fattore campo in una serie è arma a doppio taglio: ti assicura un vantaggio certo se arrivi all’ultima partita, ma in precedenza ti obbliga a giocare sempre con la pressione addosso. In questa finale, questo tipo di pressione l’ha pagata Bologna in Gara 1. Doveva essere una serie tra l’attacco e la difesa più forti del campionato, come avevano recitato i numeri per tutto l’anno. Ma nei playoff, l’Olimpia ha alzato i propri ritmi di gioco, il numero di possessi, si è presentata alla serie finale esibendo una media di 90.0 punti per gara, tirando bene ed eseguendo meglio. Contro una squadra con roster da EuroLeague, non poteva fare lo stesso, ma ha dimostrato quanto fosse in grado di cambiare pelle, giocare sui due lati del campo oppure usare la difesa per correre in transizione. E’ successo soprattutto nelle tre partite di Milano.
Ma soprattutto, alla finale, è arrivata un’Olimpia più fresca. “Malauguratamente siamo stati eliminati dai playoff di EuroLeague. Avremmo voluto giocare le Final Four come un anno fa – ha spiegato Coach Ettore Messina -, ma se fosse successo saremmo stati più stanchi, come è capitato adesso anche all’Efes, ad esempio, o al Barcellona”. E infine un’Olimpia ferita nell’orgoglio. Bastava vedere gli occhi ferocemente determinati di Kyle Hines, che per la prima volta da quando gioca ad alto livello non ha raggiunto le Final Four di EuroLeague. Lo scudetto per lui rappresentava l’unico strumento per perdonare sé stesso. E l’ha fatto.
L’Olimpia negli ultimi due anni, quelli dell’esplosione in termini di credibilità e rispetto, delle grandi imprese europee (20 vittorie in trasferta in due stagioni), in Italia ha raggiunto la finale in sei competizioni su sei, vincendone quattro. Qualunque opinione si abbia della lega italiana, non è per nulla facile riuscirci. Lo scudetto numero 29, che apre ufficialmente il count-down verso la terza stella, è anche il 50° trofeo della storia oltre che il 12° dell’era Armani. La forza della tradizione e della cultura del club è forte. Solo che questa volta è stata valorizzata, forse esaltata, dalla presenza di giocatori carismatici. Kyle Hines è il giocatore più rispettato d’Europa tra gli americani, una specie di leader carismatico di una comunità. Ma in campo è tanto corretto quanto spietato nell’usare le sue armi, forza fisica, intelligenza, desiderio, trattamento di palla, tempismo. Mom Jaiteh, circa 15 centimetri più alto, MVP di Eurocup, era stato un rebus insolubile nei tre precedenti. Bravissimo a prendere posizione vicino al canestro, a ricevere le fucilate di Milos Teodosic, dotato di mani buone per finire al ferro, e con un vantaggio fisico enorme, aveva segnato 18 punti in tutti i tre precedenti scontri diretti. Ma Hines è arrivato preparato alla sfida più importante. Ha piegato le gambe e l’ha tenuto lontano dall’area il più possibile. Solo in Gara 5, l’avversario ha inciso. Hines è un giocatore che sa essere decisivo anche segnando pochissimo, il tratto caratteristico del più vincente giocatore italiano della storia, Dino Meneghin. Hines è la versione moderna e americana. Ma potrebbe valere anche per Nicolò Melli, un altro giocatore che è disposto ad annullare sé stesso e il proprio ego per una vittoria. Scherzando dice sempre di essere stato nominato “co-capitano” dell’Olimpia perché si fidano di lui, sì, ma non del tutto. Per tutta la stagione, Melli è stato una presenza fissa nell’Olimpia, EuroLeague (dov’era sempre partito in quintetto) e campionato. Poi nel momento più importante della stagione, durante i playoff di EuroLeague, si è bloccato. Primo infortunio della sua stagione. Melli è un lavoratore incredibile, che ha una cura maniacale del proprio corpo. Quando si è infortunato la sera di Gara 1 avrebbe voluto stringere i denti e giocare Gara 2. Poi si sarebbe presentato in Gara 5 se ci fosse stata. Alla fine, ha saltato un mese abbondante, incluso il primo turno dei playoff. Un vero Capitano, come il partner Sergio Rodriguez.
Chacho è arrivato a Milano nell’estate del 2019. È stato il primo grande nome del basket europeo a sposare il nuovo corso. Aveva giocato due anni a Mosca, aveva vinto l’EuroLeague da protagonista, e aveva bisogno di cambiare aria. Rodriguez è stato importante perché ha convalidato con la propria scelta la serietà del progetto, termine di cui normalmente si abusa, ma in questo caso corretto. Ha cambiato la mentalità del gruppo. L’obiettivo è sempre stato giocare i playoff in Europa, ma lui ha spinto a guardare oltre, ha dato sicurezza a tutti. Ha portato il Chachismo a Milano. Significa che dietro l’aspetto da bravo ragazzo, che è, padre di famiglia serissimo, si nasconde l’anima del killer spietato. Rodriguez ha 36 anni e una carriera leggendaria alle spalle, ma di lui hanno colpito due cose solo apparentemente contraddittorie. La prima è che gioca come un bambino, nel senso che si vede quanto gli piace e si diverta a giocare. La seconda è che, infortunato, ha fatto un miracolo di dedizione per giocare le due partite di Istanbul come se non ci fosse un domani. Nel Mount Rushmore dei playmaker dell’Olimpia, con Mike D’Antoni, Gianfranco Pieri e Giulio Iellini ci va lui di diritto.
L’aspetto più bello è che i giocatori più giovani, Shavon Shields e Devon Hall, presentano stimmate simili a quelle dei veterani. Il loro compito non è solo dare freschezza alla squadra sui due lati del campo (Shields in finale è stato devastante mentre difendeva generalmente su Teodosic; Hall è una delle poche guardie che possono decidere una partita segnando tanto o segnando niente, grazie alla propria difesa o alla forza fisica nell’andare anche a rimbalzo), ma ereditare il testimone e tramandare l’esempio dei grandi vecchi a chiunque arrivi all’Olimpia e debba prima di tutto capire di trovarsi in un posto speciale. Speciale grazie anche a loro, al loro esempio, quello ben recepito da chi ha dato quello che poteva giocando poco, come Kaleb Tarczewski, Paul Biligha, Tommaso Baldasso, Trey Kell, Davide Alviti, non solo Pippo Ricci, in certi momenti della stagione osannato con la sua carica agonistica ed empatica, o Troy Daniels con il suo tiro micidiale. Lo scorso anno in finale, le riserve erano state criticate per quello che non avevano dato. Quest’anno che sia stata una tripla, un tap-in, un rimbalzo o anche semplicemente supportando i compagni, hanno dato quello che dovevano. Vale anche per Malcolm Delaney.
In questi due anni, Delaney è stato un giocatore che la gente non ha compreso del tutto, per la personalità debordante, il passato e le aspettative che lui per primo ha applicato a sé stesso. Delaney è arrivato a Milano parlando di trionfi europei quando nessuno pensava fosse possibile. Ha giocato alcune delle più straordinarie partite mai viste, basta ricordare i playoff con il Bayern dell’anno passato. È stato MVP di due dei quattro trofei vinti dal club. Purtroppo, gli infortuni non gli hanno dato tregua, ha dovuto riciclarsi in difensore prima che in realizzatore. Ha gestito questo ruolo senza mai venire meno alla propria professionalità. Delaney è stato un uomo squadra, in campo e fuori.
Jerian Grant è stato un modello di resilienza. Veniva da cinque anni di NBA e una stagione al Promitheas, giocando assieme al fratello e in un contesto ideale, per minuti e responsabilità. “Si è trovato a vivere in un regime di concorrenza che non aveva mai sperimentato prima, non al college, non nella NBA o in Grecia”, ha sottolineato Coach Messina. Chiaro che ci sono stati dei dubbi, ma alla fine ha rappresentato l’esempio di come lavorando bene, senza demordere con serietà le opportunità si presentano e possono essere sfruttate. L’Olimpia non ha mandato via nessuno durante la stagione. Grant non ha giocato la Supercoppa e non ha giocato la Coppa Italia. Non è facile per un ex prima scelta, che ha chiamato casa il Madison Square Garden, assorbire un ruolo come questo. Ma Grant è partito dall’energia difensiva per trovare la fiducia di essere utile, qualche volta risolutivo, anche in attacco. Ben Bentil rappresenta un caso simile, perché era arrivato per sostituire Dinos Mitoglou infortunato. Ha avuto un impatto di energia superiore alle aspettative, poi quando doveva trovare un ruolo diverso è tornato ad essere fondamentale. Complice l’infortunio di Melli, ha finito la stagione in quintetto. Il suo potenziale è illimitato: ha il fisico per dominare dentro l’area e il tiro per essere uno scorer. Ha reso orgoglioso Meme Falconer, la grande star del basket ghanese che un giorno lo notò su un campo di calcio e gli propose di diventare non Lukaku ma magari Olajuwon.
Gigi Datome era venuto a Milano con un obiettivo, dichiarato fin dal primo giorno: vincere in Italia, con una squadra italiana, da protagonista. L’ha fatto, perché ha vinto quattro titoli ed è stato MVP della Coppa Italia 2021. Ma la grande rivincita se l’è presa nei playoff. Dopo una stagione con tanti piccoli infortuni, era rientrato praticamente per l’ultima partita della sua stagione europea, tra l’altro la migliore della sua stagione. Ma da quel momento è entrato in ritmo e ha giocato nella post-season ad un livello molto più elevato rispetto ad un anno fa quando non era riuscito a dare tanto, aveva poi rinunciato alla Nazionale, criticato per quello che invece era stato un atto di umiltà, ovvero ammettere di non poter aiutare la causa. I suoi playoff sono stati una storia di riscatto personale. La sua Gara 6 è stata da tramandare ai posteri, è stata la storia di un uomo che è campione prima di tutto nella testa.
Questa è la storia di una stagione lunghissima e dello scudetto numero 29.
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