331 punti in 134 apparizioni sul campo in campionato non dovrebbero essere sufficienti per celebrare una storia, ma Bruno Cerella – che ha appena terminato la propria carriera, a quasi 38 anni di età – non è mai stato uno di quei giocatori definibili attraverso i numeri. I più importanti sono due scudetti, due Coppe Italia e una Supercoppa, i titoli vinti in quattro stagioni all’Olimpia. Era una delle colonne del secondo quintetto della squadra di Luca Banchi, quella del primo scudetto dell’era Armani, ma poi fu protagonista anche di quella che riuscì a ripetersi e vincere due volte la Coppa Italia con Jasmin Repesa. Cerella è il giocatore che si ruppe un menisco il venerdì, si operò il sabato e andò in campo la domenica. Quell’atto di coraggio è l’emblema di una carriera costruita sul sacrificio. Cerella – ed è successo a Teramo e Varese e poi ancora a Venezia – è stato uno di quei giocatori capaci di “bucare” lo schermo, di stabilire una connessione fortissima, empatica, con il pubblico. Quando si alzava dalla panchina era tutto un “Bruno, Bruno”. E la gente si entusiasmava dopo ogni singola giocata, una difesa in post basso, un tiro da fuori, un contropiede o magari una palla rubata (questa è la statistica che può rendergli giustizia: a Milano ha avuto 77 palle rubate e solo 60 palle perse). La più classica delle immagini di Cerella è in posa difensiva, contro un grande attaccante, piegato sulle ginocchia, le gambe divaricate, il busto basso e le mani a toccare terra. Era un bulldog pronto ad azzannare.
Per capire Cerella bisogna partire dalle origini. Bruno viene da Bahia Blanca, che dimostra come persino in Argentina, la patria di Maradona e Messi, possano esserci posti in cui il basket è più importante del calcio. A Bahia Blanca ci sono quattordici squadre di basket in una città di 300.000 abitanti sull’Oceano Atlantico che ha dato i natali anche al bomber dell’Inter, Lautaro Martinez, e aveva tre rappresentanti nella squadra olimpica di Atene 2004 (Manu Ginobili, Alejandro Montecchia e Pepe Sanchez). Cerella lasciò l’Argentina da ragazzino per venire in Italia a tentare di giocare a basket. La prima tappa è stata Massafra, serie C2, poi ha giocato a Senise, Salerno e Potenza. Nel 2008, arrivò la chiamata di Teramo. Era un membro di contorno della squadra che raggiunse i playoff con Peppe Poeta, Jaycee Carroll, David Moss. Ma la sua difesa senza macchia né paura, il coraggio, l’atletismo erano ormai evidenti. Fece un anno a Casalpusterlengo e poi ritornò a Teramo per esplodere definitivamente.
Fin qui sarebbe una favola lieto fine. Ma gli ostacoli non sono stati né pochi né trascurabili. Il primo lo aspettava al varco proprio nel posto che in seguito avrebbe apprezzato di più. Era una partita di fine stagione e lui aveva già un accordo per passare a Siena. Eravamo al Forum. Cerella si frantumò un ginocchio. Accordo con Siena sfumato, andò a Varese ma dovette stare fermo dieci mesi, ed ebbe anche una ricaduta tremenda. Finì la stagione abbastanza bene e sfruttò l’opportunità che gli concesse Banchi al suo arrivo a Milano. La leggenda di “Bruno, Bruno” nacque così. Ma da Bahia Blanca a Massafra, Teramo, due infortuni, e l’EuroLeague, tutto è stato tranne che facile.
Come ce l’ha fatta? Cerella a Milano era un maniaco del lavoro. Prestava una cura ossessionante ai dettagli. Il suo livello di grasso corporeo era sceso così tanto che i medici ad un certo punto dovettero fermarlo perché stava cominciando a diventare pericoloso per la salute. Dietro la scontata immagine dell’atleta bello e educato, sempre pronto a interagire con i tifosi, si celava inoltre un lavoratore indefesso e un guerriero sul campo.
Nel suo primo anno a Milano, arrivò anche la sorpresa: nelle Top 16 di EuroLeague finì al primo posto assoluto nel tiro da tre, 70.0%, dieci tentativi totali, il minimo consentito per entrare in classifica. Fu in virtù di quella curiosità statistica che in seguito, all’estero, sarebbe stato talvolta descritto come “un tiratore”. Un’etichetta che – da ragazzo autoironico – lo faceva sorridere.
Il momento più alto della sua esperienza di quattro anni a Milano ovviamente risale alla Coppa Italia 2016. Il quarto di finale era contro Venezia. E lui avvertì un problema al ginocchio. Verdetto spietato: menisco. Venne operato subito. Il giorno dopo guardò l’Olimpia battere Cremona in semifinale. Chiese se sarebbe stato possibile, l’indomani, andare al Forum, partecipare all’eventuale festa. Gli risposero che, se, se la fosse sentita, avrebbe anche potuto giocare. Non ci fu bisogno di aggiungere altro. “Sono andato da Coach Repesa e gli ho chiesto se avesse bisogno di un kamikaze per la finale”, raccontò. Lo scenario era questo: Alessandro Gentile non era utilizzabile per infortunio; Repesa aveva deciso di giocare senza Esteban Batista e di utilizzare Rakim Sanders da ala forte; così aveva quattro guardie a dividersi i minuti. E Kruno Simon nel ruolo di ala piccola. Ma Simon ebbe problemi di falli e l’Olimpia usò tanto tre guardie tutte insieme. Servivano però alcuni minuti. Repesa si voltò verso la panchina e indicò Cerella. Cerella andò in campo sei minuti, non segnò neanche un punto, ma portò giù cinque rimbalzi. Tipico Cerella.
Bruno ha poi giocato a Venezia, vincendo ancora, e ha finito la sua carriera a Treviglio in Serie A2. Nel frattempo, ha sviluppato tante altre attività incluse quelle a sfondo umanitario in Africa con “Slums Dunk”, la sua fondazione, un capolavoro educativo, promozionale e umano. La sua carriera è finita, la sua vita è solo agli inizi.
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