Non c’è nulla di usuale nella storia di Brandon Davies. Quando firmò con i Philadelphia 76ers a inizio carriera molti dissero che sarebbe stato un ritorno a casa, ma non era così. La carta d’identità dice che Davies è nato a Philadelphia, ma venne adottato subito e trasferito a Provo, nello Utah. Si tratta della quarta città dello stato, a circa 70 chilometri da Salt Lake City, ma è elegante, la chiamano Garden City, si vive bene ed è soprattutto conosciuta per essere la sede della Brigham Young University, gestita dalla chiesa mormone, una scuola con una reputazione di alto livello nel rapporto prezzo/qualità. Davies è cresciuto in una famiglia mormone ma non ha giocato nei Cougars di Brigham Young per motivi religiosi. E neppure per l’eccellente tradizione cestistica che affonda le sue radici ai tempi di Danny Ainge, la grande guardia dei Celtics degli anni ’80. No, Brandon aveva solo un’idea in testa ed era quella di aiutare la mamma Linda. “La mia decisione di rimanere a casa (a Brigham Young) per il college è nata dalla volontà di essere d’aiuto a mia madre che è single. Volevo aiutarla in ogni modo possibile e il modo migliore per farlo era rimanendo a casa”. In realtà poteva andare quasi dappertutto. “Al liceo, alla Provo High School, non ero considerato un giocatore di alto livello inizialmente, ma giocavo per gli Utah Pump and Run, andavamo a fare tornei a Las Vegas, in California e giocando in quelle situazioni ho avuto un po’ di esposizione e poi mi ha aiutato anche vincere due titoli dello stato. Giocare in squadre vincenti, porta attenzione”, racconta. E non si è mai pentito di essere andato a BYU: “Non ho mai dato per scontata la mia esperienza al college, e non ho mai guardato indietro pensando che avrei dovuto fare scelte differenti. Ho imparato tanto a BYU, sono cresciuto tanto come persona, ho avuto una buonissima carriera e soprattutto sono stato di aiuto alla mia famiglia. Quello che ho fatto a BYU mi ha portato dove sono adesso”.
La storia è nota perché nello Utah venne dibattuta a lungo. BYU aveva la squadra migliore da molti anni, guidata dal talento di Jimmer Fredette. Il più giovane Davies era il suo complemento perfetto. Brigham Young poteva arrivare alle Final Four, fare qualcosa di storico. Ma Brandon venne sospeso, per aver violato il codice etico del college, quello che vieta di intrattenere rapporti sessuali prima del matrimonio. Non ci fu astio, accuse. Presero atto che era successo, Brandon non ebbe problemi a raccontare tutto, ma venne sospeso. L’anno seguente sarebbe tornato in campo, riabilitato, ma Fredette era nella NBA. Non era la stessa squadra. “È stato comunque un anno in cui ho imparato tanto, è stato l’anno in cui sono cresciuto di più dentro e fuori del campo. Se mi guardo indietro, ci sono lezioni che avevo necessità di imparare e mi hanno permesso di diventare la persona che sono adesso”.
Nondimeno, la sua è stata una grande carriera universitaria. Lo convocarono per il Portsmouth Tournament, camp propedeutico ai draft NBA. Fu nominato MVP e poteva essere scelto, ma al secondo giro. “Speravo di essere scelto, sentivo di essere pronto e avere le qualità che servono per giocare nella NBA. C’erano delle situazioni in cui potevo essere scelto e mandato un anno all’estero (draft and stash), ma con il mio agente abbiamo pensato fosse meglio entrare nella NBA da free-agent e trovare un posto in quel modo. Alla fine, è quello che è successo con i Clippers e poi con Philadelphia.” Non male per un ragazzo che ha scoperto il basket strada facendo. “Da bambino, non ho cominciato subito con il basket, il mio primo sport è stato il calcio. Ma ero troppo alto e dovevo trovare qualcos’altro. Ho provato da attaccante, da punta, poi sono cresciuto e mi hanno messo in porta. Ma fare il portiere era noioso. Per questo ho cercato di fare qualcos’altro. Ho provato a giocare perché lo facevano i miei amici, poi io ho continuato a crescere, loro no, e ho capito che il basket sarebbe stato il mio sport”.
Nella NBA ci è arrivato, solo che non è riuscito a rimanerci. “Non avevo promesse di minutaggio o contratti garantiti, per cui il passo successivo per la mia crescita di giocatore, per la mia carriera, era venire in Europa. Era la prima volta che lasciavo gli Stati Uniti. Io e mia moglie ci siamo sposati appena prima di partire per l’Europa. La prima tappa è stata Chalon, in Francia.” Altre ne sono seguite, inclusa Monaco quando non era ancora la squadra di adesso e ovviamente Varese. Ma la svolta è arrivata a Kaunas. “Allo Zalgiris è dove il mio gioco è cresciuto di più. Ho potuto concentrarmi su come migliorare, c’erano piccoli aspetti sui quali ho lavorato duro ogni giorno. In Lituania ho aiutato la squadra a raggiungere nuovi traguardi e lì ho trovato la spinta per provare a migliorare ogni anno anche in seguito. Il mio obiettivo personale è sempre quello di migliorami ogni anno, usare l’estate per crescere e identificare come posso essere il giocatore migliore che posso essere, come aiutare la squadra a vincere più partite. Penso che una parte del lavoro consista nello scovare le tue qualità migliori. Durante la mia carriera credo di aver lavorato sulle cose giuste, che mi hanno permesso di diventare un giocatore valido, un fattore su ambedue le estremità del campo. Penso al mio tiro da fuori: ho provato a migliorarlo ogni anno, ad essere pericoloso. Credo che il lavoro svolto abbia pagato. Questo è il tipo di approccio che mi ha permesso di avere un ruolo importante in tutte le Final Four che ho giocato. Ma non le ho mai vinte, quindi resta ancora del lavoro da fare”.
Ha giocato in due diverse squadre di EuroLeague. Milano è il posto dove vorrebbe stabilizzarsi e magari togliersi l’ultima soddisfazione. “Quando finisci terzo, secondo, sai che resta del lavoro da fare, allora devi impegnarti duramente, cercare di salire oltre l’ultimo gradino, usare quanto hai imparato. Raggiungere le Final Four è qualcosa di importante, non è mai scontato. Ma per me è arrivato il momento di andare oltre”, dice. Ecco l’Olimpia quindi: “Coach Messina è stato decisivo nella mia scelta: quando ho parlato con lui, ho visto distintamente cosa avrei potuto portare alla squadra e cosa la squadra ha bisogno. Sono due canali identici, quello che serve e quello che posso fare. Così spero di aiutare la squadra a fare un altro passo in avanti e raggiungere i nostri obiettivi comuni”. Per raggiungerli dovrà ribadire la qualità della sua sintonia con Kevin Pangos. “Sono felice di tornare a giocare con Kevin, siamo in sintonia, abbiamo tanta esperienza insieme. Da quando ci conosciamo, siamo sempre stati in grado di lavorare bene insieme, sia allo Zalgiris che a Barcellona. È divertente giocare con lui; averlo qui significa molto per me e la mia famiglia. Le nostre mogli si conoscono, i nostri figli si conoscono e questo aiuta a sentirsi a proprio agio in un nuovo ambiente. Sul campo, non vedo l’ora di giocare con lui di nuovo. A Barcellona, gli infortuni non ci hanno permesso di giocare insieme quanto avremmo voluto. Adesso a Milano è giunto il momento di tornare a dimostrare cosa possiamo fare insieme. È stimolante”.
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