Mike, sei reduce dalla partita più importante della storia di Derthona, vinta contro i campioni d’Italia della Virtus Bologna nel giorno del tuo 26esimo compleanno. Trascinando i tuoi compagni al successo con una prestazione da 18 punti e 7 rimbalzi, ti sei fatto un bel regalo! Al regalo hanno partecipato tutti, compagni, staff e tifosi. È stata una partita davvero bellissima! Vincere contro una formazione come la Virtus, contro i campioni in carica, ci ha dato grandissima fiducia nei nostri mezzi. In preparazione alla partita ci eravamo allenati duramente, volevamo metterci subito alle spalle la sconfitta subita a Trieste nel turno precedente di campionato e siamo riusciti nel nostro intento, entrando in campo con la giusta convinzione di poter vincere. Siamo stati bravi a seguire il piano partita preparato del nostro coaching staff e la partita è girata in nostro favore. Siamo felici di aver condiviso coi nostri tifosi un bel momento di gioia e orgogliosi per aver scritto una pagina importante della storia del Club.
Considerato l’avvio di stagione – 3 vittorie nelle prime 6 giornate – non si direbbe che la Bertram Derthona sia la ‘Cenerentola’ della massima serie. Che ambiente hai trovato a Tortona e quali ritieni siano i vostri principali punti di forza? Sono passati solo pochi mesi, ma posso dire che la mia esperienza qui a Tortona finora è stata fantastica. Non si tratta della mia prima esperienza oltreoceano, ma rispetto alla scorsa stagione in Spagna tornare a sentire il calore dei tifosi che ci avvolge durante le partite è una sensazione meravigliosa, mi mancava. La presenza del pubblico è fondamentale, dà a noi atleti motivazioni extra per continuare ad amare il nostro mestiere. Per il resto la società ha una grande organizzazione, non posso fare altro che parlare bene dei miei compagni, di coach Ramondino e di tutte le persone che lavorano per la società. C’è cura dietro a ognuno di noi giocatori e, oltretutto, la dirigenza ha prestato massima attenzione anche alla compatibilità caratteriale dei singoli, per favorire l’affiatamento del gruppo. Ci troviamo bene e questo penso si noti anche quando scendiamo in campo, abbiamo piacere nel passarci il pallone e nell’aiutarci a vicenda.
Sei un’autentica leggenda del basket collegiale: settimo all time per punti segnati, il quarto giocatore nella storia della NCAA a segnare almeno 3000 punti con più di 1000 rimbalzi catturati… Il tuo soprannome, The Dauminator, ben descrive quello che sei stato capace di raggiungere con la maglia dei Jackrabbits di South Dakota State University. Conservo un numero incalcolabile di ricordi indelebili legati al mio quadriennio a SDSU. È stato un periodo così grandioso della mia vita che mi viene ancora spontaneo ringraziare tutti coloro che ne hanno fatto parte. È vero, c’è il mio nome scritto lì in alto su quelle classifiche e sono onorato di poterlo leggere vicino a quelli di altre leggende del gioco; ma dovrebbe esserci il nome di tutte le persone che mi hanno sostenuto, al posto del mio. Non avrei mai raggiunto certi traguardi da solo: a partire dai miei genitori, fino ad arrivare ai miei compagni e ai vari allenatori che ho avuto, ognuno è stato fondamentale nell’aiutarmi ad avere successo. Coach Scott Nagy, il mio primo allenatore, mi ha insegnato a lavorare sodo, a restare umile e sempre concentrato sugli obiettivi della squadra. Poi ho avuto coach T. J. Otzelberger, l’allenatore che mi ha aperto gli occhi. Con lui mi sono reso conto del potenziale individuale che posso sviluppare. Devo molto a figure come loro e con molte di queste persone sono fiero di essere tuttora legato da un bel rapporto. La loro amicizia è indubbiamente ciò che mi rimane di più prezioso della mia carriera universitaria.
Tornando ancora più indietro nel tempo, agli anni della tua infanzia, hai cominciato a tirare a canestro nel cortile della fattoria dove sei cresciuto grazie a tua madre Michele, anche lei una leggenda ai tempi dell’università, avendo concluso il suo percorso di studi a Wyoming da primatista per punti e rimbalzi della squadra di basket femminile. In che termini è stata una figura guida per te? Mia mamma sapeva perfettamente che tipo di percorso avevo bisogno di fare, essendo stata lei in prima persona una cestista professionista. Sin dai tempi della scuola elementare ha sempre assistito alle mie partite, spingendomi a fare sempre del mio meglio e dandomi sempre consigli utili, al momento giusto. Ho speso migliaia di ore in palestra con lei: non importava se fosse prima mattina, dopo scuola, dopo la partita… Ha sacrificato molto del suo tempo per assicurarsi che suo figlio si stesse costruendo al meglio l’opportunità di fare carriera anche attraverso la pallacanestro. L’influenza che ha esercitato nei miei confronti è stata enorme, e posso dire lo stesso di mio padre. Grazie ai miei genitori ho imparato a farmi allenare; bisogna avere una buona etica del lavoro per essere maggiormente predisposti a imparare. Mamma e papà senza dubbio le mie più grandi fonti d’ispirazione.
Oltre ai tuoi genitori, ammiri o hai ammirato altri atleti per quello che sono stati capaci di far vedere sul parquet? Sono cresciuto ispirandomi a Dirk Nowitzki. Un campione unico, uno stretch-four dotato di una sensibilità di rilascio fuori dal comune, mai visto prima per un lungo di quella stazza fisica. Senza dubbio Dirk è il tipo di giocatore nel quale mi sono riconosciuto maggiormente, anche perché gioco nel suo stesso ruolo e la fiducia nel potermi prendere tiri da ogni zona del campo è una delle prerogative che più mi appartengono. Ma in realtà prendo esempio da tanti giocatori: cito due miei grandi amici come Matt Thomas e Georges Niang, che si stanno ritagliando il loro spazio in NBA, quest’anno rispettivamente con Chicago e Philadelphia. Sono due ragazzi che mi incentivano a credere di poter compiere il loro stesso percorso. Proprio come me Matt, appena uscito dal college, ha trascorso due stagioni in Spagna, dove è migliorato al punto tale da guadagnarsi il primo di una serie di contratti con franchigie NBA. È quello che potrei arrivare a fare anch’io, un giorno… Ma non serve a nulla fare piani. Quello che conta è restare concentrato sul presente e continuare ad allenarmi come ho sempre fatto: dando il meglio di me stesso, assieme ai miei compagni.
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