Nacque tutto con una musichetta, una melodia. Se l’hanno messa, significa che il basket dev’essere uno sport “cool”. Maodo Lo ha cominciato a giocare così, incuriosito. Ha il ritmo dentro, per questo ha deciso subito di interpretare il basket nel modo più americano possibile. Lui lo chiama “streetball”. E guarda caso ha giocato ed è diventato un giocatore vero a pochi isolati di distanza da Harlem, alla Columbia University, parte alta di Manhattan, un campus bellissimo che sovrasta Central Park North. Da quelle parti tutti giocano a basket nei playground, lo streetball impera. “In America, apprezzavano il mio modo di giocare più che a casa”, ammette.
Maodo Lo, come ci si sente da Campione del Mondo?
“Voglio chiarire un concetto. Il titolo mondiale può essere considerato inatteso, ma noi, come squadra, in spogliatoio, il nostro obiettivo, la nostra aspettativa, è stata sempre vincere una medaglia. Lo volevamo anche l’anno prima agli Europei e ci siamo riusciti vincendo il bronzo. Quest’anno avevamo la stessa squadra, la stessa chimica e il nostro obiettivo era salire sul podio. Abbiamo un gruppo speciale, che negli anni ha costruito la sua chimica, un certo livello di familiarità, e poi c’è talento. Abbiamo una generazione di giocatori forti. E nelle ultime estati si è visto”.
E tra un anno succederà anche a Parigi?
“Sicuramente partiremo con le stesse aspettative e lo stesso obiettivo, che è salire sul podio, vincere una medaglia”.
Come è nata la storia di Maodo Lo giocatore di basket?
“Mi sono innamorato del basket attraverso mio fratello. Giocava sempre a questo videogame Nintendo. È stato tanto tempo fa. All’inizio del gioco, prima che cominciasse la partita, c’era questa melodia. Ero piccolo e mi piaceva quella musica. Allora mi sono detto, questo sport dev’essere divertente, così ho cominciato a giocare”.
Eppure, all’inizio non era stato considerato dai grandi club tedeschi, neppure dall’Alba che è la squadra della tua città.
“Quando ero piccolo, ero davvero piccolo, ero veloce, ma piccolo. E poi giocavo un tipo di basket che non era particolarmente apprezzato in Germania. Giocavo lo streetball, come nei playground. Mi piaceva palleggiare tra le gambe, dietro la schiena, improvvisare qualche trucchetto. Ma in Germania volevano giocare tutti diversamente, rallentando, controllando il gioco. Il mio tipo di gioco non era apprezzato e questo penso sia il motivo per cui l’Alba Berlino non mi ha cercato subito. Ma devo dire che nemmeno le nazionali giovanili l’hanno fatto”.
Di qui la decisione di trasferirsi negli Stati Uniti da giovanissimo.
“Non è stato difficile, perché in fondo facevo quello che mi piaceva, giocavo a basket. È ciò che mi ha guidato e ha influenzato la maggior parte delle decisioni che ho preso nel corso della mia vita. Sapevo che il mio stile di gioco sarebbe stato più apprezzato negli Stati Uniti. Così ho avuto la mia borsa di studio e sono migliorato come giocatore”.
Sei andato a Columbia, che è una grande università accademicamente, ma non come programma cestistico.
“Per me era importante trovare un college di prima divisione, cestisticamente, che mi garantisse una buona educazione. Nella vita non puoi mai sapere cosa succederà, come andrà la tua carriera, puoi sempre infortunarti, magari la salute non ti sostiene. Lì ho avuto la possibilità di andare in un college della Ivy League, ricevere un’educazione di alto livello, in più a New York City. Per me è stata una decisione facile”.
Così hai vissuto quattro anni a New York.
“Quei quattro anni a New York sono stati incredibili. Ho vissuto a Manhattan, ho stretto amicizie che dureranno per tutta la vita. E poi frequentavo una scuola di qualità, bravi professori, eccellenti corsi accademici. In quattro anni ho appreso tanto, sono cresciuto tanto. Sono davvero felice della scelta che ho fatto”.
Ti chiamavano The Chairman.
“Non ho mai capito perché, come sia nato il soprannome. Ma a Columbia ci sono tante persone intelligenti, che possono fare associazioni inimmaginabili. Sarà stato così, io non ci sono arrivato”.
Negli anni trascorsi a Columbia, le squadre tedesche hanno cominciato ad accorgersi di Maodo Lo.
“Dopo il mio secondo anno a Columbia, ho ricevuto diverse proposte, tutte le tre squadre tedesche mi hanno chiesto di cominciare immediatamente la mia carriera professionistica, ma come ho detto per me era importante completare gli studi. A Columbia mi sono laureato, e quando finirò la mia carriera di giocatore se dovessi decidere di lavorare in un altro settore potrei farlo”.
Finito il college, avevi anche una possibilità nella NBA.
“Quando prendi una decisione non sai mai come sarebbero andate le cose se avessi percorso una strada diversa. Non ho rimpianti, anche se ogni tanto mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi accettato il contratto parzialmente garantito che i Philadelphia 76ers mi avevano offerto. Ma avevo un buon contratto a Bamberg, che era in EuroLeague, aveva una squadra di talento. Ho scelto l’EuroLeague piuttosto che l’incertezza della NBA. Ma poi a Bamberg ho conosciuto la mia fidanzata. La vita ha preso quella direzione e ne sono felice”.
Poi sono seguiti tanti anni ai massimi livelli tedeschi, hai giocato in tutte le squadre che hanno fatto l’EuroLeague e vinto tantissimo in patria.
“Come giocatore la mia aspirazione è sempre stata quella di competere al più alto livello possibile, avere l’opportunità di imparare e crescere. Credo che, come persone, si debba avere l’aspirazione di non smettere mai di imparare, crescere ed evolversi. La mia esperienza al Bayern soprattutto, ma anche a Bamberg e Berlino, mi ha permesso di continuare a crescere ed evolvermi come giocatore. Gli ultimi anni sono stati a Berlino, la mia città, dove vive la mia famiglia. Nella carriera di un giocatore ci sono situazioni private che qualche volta influiscono sulle tue scelte. Per me negli ultimi tre anni è stato davvero importante stare vicino alla mia famiglia, stare tutti insieme, sostenerci a vicenda. Giocare all’Alba Berlino, che è una grande società, nella mia città, è stato importante”.
Quando eri a Bamberg avevi già conosciuto Nicolò Melli, avete giocato insieme.
“È successo nel mio primo anno. Nicolò era lo stesso ragazzo di adesso, con grande senso dell’umorismo, divertente, responsabile, ovviamente un grande giocatore, una bellissima persona. Mi ha aiutato a Bamberg insieme ad altri veterani durante il mio primo anno da professionista, e mi sta aiutando anche adesso a Milano. È utile per me avere qualcuno con cui ho già familiarità”.
Come Joahnnes Voigtmann.
“Jo Voigtmann è un ragazzo silenzioso, che capisce il basket molto bene. È un lungo ma ha qualità che non tanti lunghi hanno, il suo talento come tiratore e passatore, la sua visione di gioco per un giocatore della sua taglia, è impressionante. Questo è quello che porta alla squadra ed è speciale”.
Come ti definiresti come giocatore?
“Creativo e altruista”.
Quest’estate la scelta di venire a Milano.
“Altre volte Milano si è interessata a me. In passato, come ho detto, le condizioni non erano giuste. Ma quando ricevi interesse dalle stesse persone, per tanto tempo questo ha un impatto, ti fa pensare. Poi si tratta di una grande società, che ha grandi ambizioni e vorrei essere parte di questa squadra e aiutarla a competere ai livelli più alti, con quelli che sono i miei punti di forza. Adesso che comincio ad essere un giocatore esperto, ho 30 anni, so che non giocherò per sempre. Questo penso fosse il momento perfetto per fare un passo in avanti ed essere parte di questa società”.
Ti sei reso conto che contro l’Olimpia hai sempre giocato bene?
“Forse perché in Italia mangio sempre un buon piatto di pasta prima delle partite… No, scherzi a parte, so di aver giocato spesso bene contro l’Olimpia ma sono sincero: non sono state le mie partite migliori, ne ho fatte altre, di livello superiore”.
UFFICIO STAMPA OLIMPIA MILANO
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