Il Muro Rosso mancava da tanto tempo, mancava dal 1° novembre del 2019 quando a Milano sbarcò il Barcellona, venne rimontato e battuto nell’ultimo quarto. Poi ci furono altre partite oltre i 10.000 presenti, che vengono sempre considerati una sorta di barriera, tra un pubblico folto e uno importante. Infine, è arrivata la pandemia. Ci sarebbe stato il pienone per l’arrivo del Real Madrid nel marzo del 2020, invece quella fu la prima partita a porte chiuse di tante che ne sarebbero seguite. Così, il Muro Rosso della finale è stato qualcosa di eccezionale.
In realtà, la simbiosi tra questa squadra e il suo pubblico non è mai mancato. In termini di sostegno e affetto, la risposta è sempre stata positiva, ma quando anche l’anello più alto si riempie, quando tutti si vestono di rosso, quando Milano si stringe attorno alla sua squadra, quando canta la Madonnina e applaude “Il più grande spettacolo” di Jovanotti perché in tre minuti ripercorre tutta la storia del club, il feeling è davvero unico.
Il tifo di Milano per l’Olimpia è stato sempre sottovalutato. A Milano la concorrenza è tremenda, del calcio e di qualsiasi attività di intrattenimento, le distanze sono lunghe, ci sono tanti fattori che soprattutto di inverno complottano contro le grandi affluenze. Ma l’amore e la passione per l’Olimpia non sono in discussione. Che in una finale per il titolo, Milano abbia più pubblico di Bologna e risponda in modo più caloroso, al punto da spingere uno come Malcolm Delaney a definire la tifoseria “la più calda d’Europa in queste circostanze” è molto significativo.
La spinta del tifo si traduce in campo in quel surplus di energia nervosa che in certe gare può fare la differenza, come è successo in Gara 4, aspetto puntualmente sottolineato da Coach Ettore Messina: “Quando sei stanchi, il sostegno del pubblico magari ti spinge a fare uno sforzo extra”. Dicono che alla gente di Milano piacciano le squadre che lottano, difendono, combattono. Tutte le tifoserie vogliono vedere questo, vogliono vedere gente che ci tiene e lotta. Qui però la difesa è una questione di cultura, lo spirito combattivo è sempre esistito. È nato con Sandro Gamba negli anni ’50, è proseguito con Giando Ongaro negli anni ’60, Arthur Kenney negli anni ’70, Vittorio Gallinari nella Banda Bassotti, poi Dino Meneghin con Mike D’Antoni e in tempi più recenti Mason Rocca, che non ha vinto, ma avrebbe meritato di farlo. Ora questa squadra in cui lo spirito guerriero è interpretato da Kyle Hines e Nicolò Melli.
Il tuffo di Bob McAdoo, un artista spinto dal clima a diventare gladiatore, la stoppata di Andrew Goudelock che riflette esattamente lo stesso concetto sono quasi un segno del destino. Sono state il rovesciamento delle abitudini. La squadra di quest’anno non aveva bisogno di modificare pelle, perché ha difeso dal primo giorno. La difesa è stata la cosiddetta “Calling Card” dall’inizio dell’anno. Shavon Shields che agisce da prima punta in attacco ma poi difende su Teodosic; Devon Hall che non si fa mai superare da nessuno; Nicolò Melli che marca tutti, dai centri ai playmaker; Kyle Hines che è il muro per antonomasia del basket europeo. Questa è stata l’Olimpia 2021/22. L’Olimpia e la sua gente.
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