Kyle Hines è appena diventato il primo giocatore per partite giocate nella storia dell’EuroLeague, un’altra perla da aggiungere alla sua collana di record, trionfi, vittorie, pietre miliari. Forse la più significativa. “La mia prima partita di EuroLeague l’ho vista a Roma quando ero a Veroli. C’era il Maccabi. Ero seduto in alto, lontanissimo dal campo”, racconta. Non avrebbe mai pensato che un giorno di quelle partite ne avrebbe giocate a centinaia. Ricorda, anzi, quella partita perché la commentò dal Palaeur su Twitter raccontando di quanto un giorno gli sarebbe piaciuto giocare a quel livello. La vita può sorprendere alle volte.
Sicklerville, New Jersey, è un centro che ospita 50.000 abitanti lungo la East Coast americana, attraversato dalla Atlantic City Expressway che in 40 minuti ti porta dritto sull’oceano, in una delle capitali del gioco d’azzardo. Ma gli abitanti della cittadina fondata nel 1851 da John Sickler, di qui il nome, preferiscono gravitare verso il fiume Delaware e la città di Philadelphia. In condizioni di traffico agevole, si arriva nel cuore della Città dell’Amore Fraterno in 25 minuti. Kyle Hines è di Sickerville ed è un fanatico dello sport di Philadelphia, come il fratello minore Tyler, come il padre. Dicono che il nonno gli avesse depositato il pallone da basket nella culla, ma lui ha provato anche l’atletica, il karate e il football. Ma quando arrivò il momento di andare al liceo, e doveva ogni mattina percorrere 32 chilometri per arrivare a Camden, il basket diventò la sua unica passione. Fortunatamente, nel 2001 venne aperta la Timber Creek High School, molto più vicina e raggiungibile da Sicklerville. “Sono orgoglioso di aver fatto parte di una scuola tutta nuova. La mia è stata una delle prime classi a diplomarsi. Ogni estate quando torno a casa mi piace vedere come la scuola si sia evoluta e sviluppata. Sono contento di aiutare”, dice.
L’ allenatore della squadra di basket si chiamava Gary Saunders, fratello di Leon Saunders che alla Roosevelt High School di Long Island (zona New York ma non lontana dal South Jersey da cui proviene Kyle) negli anni ’60 era stato compagno di squadra di Julius Erving, il leggendario Doctor J: a quei tempi, Erving giocava con il 42. Saunders decise che Hines avesse una personalità simile e volle che indossasse appunto il 42. “Per me la motivazione è un onore, Doctor J è stato un giocatore leggendario, ma anche una grande persona”, dice Kyle.
Kyle Hines era un eccellente giocatore a Timber Creek, ma quando sei confinato in una piccola città della parte meridionale del New Jersey, lontano dagli occhi delle grandi università, non è facile catturare il loro sguardo, la cosiddetta “Exposure”. Hines poi era costruito come un linebacker, ma con il gioco riservato all’epoca a chi era alto 2.10 (in realtà non era proprio così: a molti è sempre sfuggito l’incredibile ball-handling di Hines, uno che è capace di palleggiare come un playmaker, tenendo basso il palleggio). Mitch Buonaguro, assistente allenatore a UNC-Greensboro, fu il primo a notarlo e lo segnalò al suo capo allenatore, Fran McCaffery che è di Philadelphia. Così Kyle venne reclutato.
I suoi Spartans diventarono subito una potenza nella Southern Conference. Il playmaker era Ricky Hickman, Kyle Hines era il centro. Cinque titoli europei in un quintetto. A UNC-Greensboro, Hines ha stabilito ogni tipo di record scolastico, è stato anche giocatore dell’anno di conference da junior, finendo secondo dietro Steph Curry – che giocava a Davidson – da senior. La sua carriera universitaria è stata di altissimo livello: è stato uno dei soli sei giocatori della storia ad aver accumulato almeno 2.000 punti, 1.000 rimbalzi e 300 stoppate in carriera. Gli altri cinque? Quattro numeri 1 del draft (Pervis Ellison, David Robinson, Tim Duncan e Derrick Coleman) e un numero 2 (Alonzo Mourning).
Ma anche lì ci furono difficoltà: dopo due anni, Coach McCaffery lasciò UNC-Greensboro per salire di livello, al Siena College, e adesso guida un college importante come Iowa. Ha fatto strada, insomma. Mitch Buonaguro lo seguì. Nel basket universitario cambiare scuola a quell’epoca era permesso senza osservare un anno di stop, solo in casi eccezionali, come appunto quando un allenatore lascia un posto di lavoro per un altro. Hines avrebbe potuto approfittarne, andare in una scuola che potesse garantirgli maggiore visibilità, ma si trovava bene a UNCG e decise di rimanere anche con il nuovo allenatore, Mike Dement. Cambiare spesso non fa per lui. “Non fu facile perché Coach McCaffery era una delle ragioni principali della mia scelta”, dice.
Il suo draft avrebbe dovuto essere quello del 2008. Aveva giocato in una scuola piccola, in una conference considerata debole, ma con grandi numeri e in un periodo dominato dalla Davidson di Steph Curry. Hines si presentò a Portsmouth, al camp predraft, accendendo tante lampadine con la sua energia e le condizioni atletiche strepitose. Quando lo misurarono, denunciò un 3.8% di grasso corporeo inusitato. Ma la statura fu subito un problema. Con le scarpe era sei piedi, cinque pollici e 25. Tradotto fa 1.96. L’apertura di braccia era 2.15. C’erano anche Othello Hunter e James Gist per citare due giocatori che poi hanno fatto la storia dell’EuroLeague. Ma Hines venne etichettato, sul sito ufficiale della NBA, come un’ala piccola/ala grande. Nessuno aveva il coraggio di identificare come centro un giocatore di 1.96. Eppure, a Portsmouth, Hines fu devastante. In tre giorni di partite ebbe 22/28 dal campo, il 78.6%, record di tutti i tempi del torneo. Segnò 17.3 punti per gara, quarto assoluto. Eseguì 10 stoppate, catturò 7.3 rimbalzi a partita e perfezionò 2.3 palle rubate per gara. Ma non venne scelto.
Non la prese bene, onestamente. Non immaginava quello che sarebbe successo di lì a poco, altrimenti se ne sarebbe fatto una ragione. Provò per Oklahoma City, per Charlotte, vicino al college che aveva frequentato per quattro anni, con tanto di maglia ritirata e l’etichetta di miglior giocatore della sua storia. Poi venne invitato a Cleveland. Non tirava una buona aria, anche se venne invitato a due summer league. Prima a Orlando e poi a Las Vegas. “A Orlando – racconta Antonello Riva, allora general manager di Veroli, ex leggenda dell’Olimpia Milano – entra in campo e lo fanno giocare da ala piccola. Un disastro. Mi rivolsi al mio allenatore, Andrea Trinchieri, e gli chiesi che cosa pensasse di farsene di quel giocatore. Ma dopo pochi giorni andammo a vederlo a Las Vegas, giocava con Charlotte. La sua squadra stava perdendo. Poi entrò lui e cambiò tutto. Giocava nel suo ruolo: stoppate, schiacciate, contropiedi. Pensai che dovessimo firmarlo prima che lo facesse qualcun altro. Nei due anni a Veroli era sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. La sua carriera è merito suo perché ha sempre avuto serietà, concentrazione e caparbietà”.
Successe e a Veroli restò due anni. “Ero in un piccolo posto, ma non sarei diventato quello che sono senza Veroli. Ho conosciuto persone importanti, come Jerome Allen in campo, Trinchieri e Massimo Cancellieri come allenatori, Antonello Riva come general manager. Ero un ragazzino che non aveva mai viaggiato. La città era piccola, ma mi ha adottato, hanno fatto tutto per permettermi di sentirmi protetto”, racconta. È facile dire adesso che tutto cominciò a Veroli e tutto fu subito chiaro. Non lo fu per nulla. A Veroli, Hines rimase due anni. Un centro sotto i due metri non convinceva nessuno, anche se con lui vinsero due volte la Coppa Italia di categoria. “Prima di andare al college non ero mai uscito dal South Jersey e Philadelphia, prima di Veroli non ero mai stato in nessun posto del mondo. Mi ha aperto la mente. Dovevo sforzarmi di parlare italiano. Ma in trenta minuti potevo passare accanto al Colosseo. Ci sono persone che risparmiamo per tutta la vita per poter vedere un giorno il Colosseo. Io potevo vederlo in qualunque martedì mattina volessi vederlo. Non ho mai dimenticato quanto sia stato fortunato”.
Lo scout di Bamberg si chiamava Brandon Rooney. Fu lui a suggerirlo al general manager, Wolfgang Heyder. “Avevano vinto il titolo tedesco e decisero di puntare su un ragazzo che veniva dalla seconda divisione italiana. Nessun altro l’avrebbe fatto”, ricorda con gratitudine. L’allenatore era il canadese Chris Fleming, che oggi è assistente allenatore a Chicago nella NBA, che gli costruì attorno la squadra. In Germania è rimasto un anno, prima che arrivasse Nicolò Melli nello stesso posto, vinse il titolo tedesco da MVP e conobbe l’EuroLeague. Segnò 20 punti al debutto a Roma, proprio dove aveva sognato ad occhi aperti di giocare a quel livello, un giorno. La seconda partita fu una clamorosa vittoria casalinga contro l’Olympiacos. Magari fu allora che decisero di prenderlo loro. I greci lottavano per vincere il titolo, l’allenatore era il grande Dusan Ivkovic e il general manager Christos Stavropoulos, che poi l’avrebbe firmato una seconda volta, per l’Olimpia.
C’era grande scetticismo. La risposta furono due titoli di EuroLeague in due anni. Nel primo anno, non giocò delle grandi Final Four, ma fu decisivo nei quarti di finale vinti con il fattore campo a sfavore contro Siena. Nelle tre vittorie dell’Olympiacos, segnò 49 punti con 20 rimbalzi. La stagione successiva, alle Final Four di Londra, ebbe 13 punti e 10 rimbalzi nella vittoria in semifinale contro il CSKA e 12 punti (4/4 dal campo, 4/5 dalla lunetta), cinque rimbalzi, tre palle rubate e tre stoppate nella finale contro il Real Madrid. A quel punto era già una leggenda. Ma quello che ha fatto va oltre le vittorie. Nei due anni al Pireo, Hines ha aperto una strada, ha dimostrato che i centri “undersized” possono fare tanta strada in Europa e possono farla anche senza essere grandi tiratori da fuori. “Credo che Michael Batiste al Panathinaikos sia stato il primo, il basket si è evoluto in modo tale da permettermi la carriera che ho avuto, nonostante la taglia fisica, ad esempio in difesa dove adesso si cambia su tutti i blocchi. Questo mi ha aiutato”, spiega.
Kyle Hines ha vinto l’EuroLeague altre due volte a Mosca, nel 2016 e ancora nel 2019 quando giocava accanto a Sergio Rodriguez. Al CSKA, allenato il primo anno proprio da Ettore Messina, è diventato due volte difensore dell’anno di EuroLeague e infine è stato incluso nella squadra ideale del decennio. “Quando ho cominciato a giocare in EuroLeague, a Bamberg, non mi sarei mai immaginato nulla di simile, una carriera così lunga, tutte le vittorie e tutte le Final Four”, ha confessato. A Milano, ha poi vinto il trofeo di difensore dell’anno una terza volta. Può darsi che debbano rinominare il trofeo attribuendogli il suo nome.
A Mosca, Hines è arrivato nel 2013 e la sua striscia di partecipazioni alle Final Four è proseguita. La prima fu proprio a Milano. Poi ha vinto nel 2016 e nel 2019, quest’ultima giocando accanto a Sergio Rodriguez. “Nella mia carriera sono stato fortunato: ho giocato vicino a Roma e visto il Colosseo, sono stato ad Atene e ho camminato sulla pista della prima Olimpiade moderna, vivendo a pochi metri dal mare, sono stato a Mosca passando regolarmente dalla Piazza Rossa. E il basket mi ha portato in posti che altrimenti non avrei mai visto”, ha confessato negli Stati Uniti dove l’estate è attivo con camp e attività per ragazzi, assieme al fratello Tyler, alla moglie Gianna, ex giocatrice inserita nella Hall of Fame dell’Adelphi University con la quale ha tre bellissimi figli. “Quando ero piccolo non c’erano camp e opportunità nella nostra zona, dovevamo andare fuori o nell’area di Philadelphia, per questo abbiamo pensato di aiutare chi si trova nella nostra posizione”, ha spiegato.
Hines è arrivato a Milano nell’estate del 2020 e a Milano ha prolungato la sua striscia di partecipazioni alle Final Four. Nessun americano ha giocato tante Final Four o vinto tanti titoli quanti ne ha vinti lui. L’ha fatto sempre con classe, stile, educazione, apprezzamento per quello che ha trovato in Europa. I giocatori americani, non solo i compagni di squadra, lo guardano come si guarda ad una leggenda, solo che poi la leggenda va in campo. C’è andato più di qualunque altro giocatore.
Gli americani in EuroLeague arrivano tardi e finiscono di giocarci prima degli europei, per ovvie ragioni. Per questo i numeri di Hines valgono davvero tanto. Essendo il prototipo del giocatore di squadra, però, la statistica che significa di più è quella dei titoli vinti e delle partite vinte. “Se mi guardo alle spalle – conclude – non ho rimpianti, ho conosciuto l’Europa, ho giocato in EuroLeague, ho fatto tante esperienze, ho vinto tantissimo, ho giocato con grandi giocatori e per grandi allenatori, per alcuni dei club con più storia al mondo. Ho sempre avuto il sogno di giocare nella NBA, ma oggi sono felice che non si sia avverato. Ho capito ad un certo punto che il mio vero sogno era un altro, ed era qui in Europa. Durante i miei quattro anni in Europa ho pensato che fosse un percorso e che sarei arrivato a giocare lì. Ma dopo quattro stagioni, ero ad Atene, ho smesso di pensarci”, dice.
Una clip con le sue azioni spettacolari può essere realizzata attraverso una stoppata miracolosa, inaspettata, generata non tanto dallo stacco da terra, ma da forza, tempismo e velocità di salto. Oppure può riguardare un contropiede condotto in palleggio e chiuso da un assist. I rimbalzi offensivi sono il suo tratto caratteristico. È quasi più efficace sotto lo specchio d’attacco che quello difensivo. Ma il suo segreto è nella serietà con cui si prepara, nell’applicazione, nell’intelligenza. E poi tutto questo è diventato carisma. Kyle Hines sta al basket dei giorni nostri come Dino Meneghin stava a quello degli anni ’80. Non è mai una questione di statistiche personali, la loro enormità serve solo per generare l’unica cosa che conta davvero. Vincere.
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