Kyle Hines: Abbiamo messo assieme una squadra che può finire la stagione vincendo dei titoli

Hines: La NBA è sempre stata un sogno, ma oggi sono contento che quel sogno non si sia avverato. Ho realizzato che il mio vero sogno era un altro ed era competere per vincere dei titoli qui in Europa

Kyle Hines è davvero come viene raccontato. “E’ totalmente concentrato sulla squadra e su come aiutarla a vincere”, dice Malcolm Delaney. Ripete il concetto incessantemente: “Tutto quello che serve… aiutare la squadra… dargli una chance migliore per vincere le partite”. E poi ricorda sempre quali siano i suoi obiettivi, “win championships, win trophies, have a lot of success”.

-Kyle, come è nata la passione per il basket?

“La storia dice che mio nonno mise un pallone da basket e uno da football nella mia culla, appena uscito dall’ospedale. Da allora, i miei genitori mi hanno raccontato che sono sempre stato rapito dal basket. Guardavo lo sport in televisione, basket, football. Fin dall’inizio, questo è il mondo in cui sono cresciuto, lo sport è stata sempre la mia passione. Anche mio padre era un atleta, giocava a football, ma ha anche giocato per un po’ a basket. Io lo seguivo dappertutto, in tutte le cose che faceva, mi allenavo con lui, andavo in sala pesi. In sostanza, il mio amore per lo sport, per il basket, è soprattutto una questione familiare”.

-E’ vera la storia che il numero 42 è indossato in onore di Julius Erving?

“E’ una storia vera. Il mio allenatore al liceo (Gary Saunders-ndr) veniva da Long Island, da Roosevelt, e il fratello Leon era molto amico di Julius Erving. C’è una storia secondo cui fu lui a dare a Doctor J il soprannome Doctor J. Quando ero al liceo, ci seguiva dappertutto e diceva che dovevo indossare il numero 42 perché era il numero che Doctor J indossava all’high school, e secondo lui la mia personalità era simile alla sua. Per me è stato un onore indossare il 42 in suo onore. Doctor J è un giocatore leggendario, ma anche una persona di valore”.

-A UNC-Greensboro i numeri accumulati hanno fatto storia.

“A UNC-Greensboro, nella Southern Conference, ho trascorso anni di grandi successi. E’ una scuola piccola, ma sono riuscito a ottenere grandi riconoscimenti, record, a far parte di elenchi importanti, insieme a nomi famosi, Hall of Famers. UNC-Greensboro è un posto speciale per me, è il posto in cui ho davvero cominciato a capire di essere un buon giocatore di basket”.

-Sarebbe stato normale attendersi un po’ di interesse dalla NBA?

“Pensavo che la NBA potesse essere un’opzione realistica, ma il percorso è differente per ogni persona. Io se mi guardo indietro non ho alcun rimpianto, sono venuto in Europa, ho giocato in EuroLeague, ho sperimentato tante cose diverse, ho vinto tanti titoli, giocato con grandi compagni e per grandi allenatori, per alcuni dei club con più storia in Europa. La NBA è sempre stata un sogno, ma oggi sono contento che quel sogno non si sia avverato. Ho realizzato che il mio vero sogno era un altro ed era competere per vincere dei titoli qui in Europa”.

-Tutto è cominciato a Veroli.

“E’ stato bello, Veroli, per chi non la conosce, è un paese piccolo, con 5-6.000 abitanti, ma mi hanno fatto sentire come se fossi uno di loro. C’era gente che mi invitava a cena, che si preoccupava che stessi bene, ho avuto anche grandi compagni, alcuni sono stati in Nazionale, come Micky Mian, altri erano grandi americani, penso a Jerome Allen. E ho giocato per eccellenti allenatori e general manager, come Antonello Riva, Andrea Trinchieri, Massimo Cancellieri. Ho avuto l’opportunità di crescere e gettare le fondamenta per diventare il giocatore che sono diventato. Sono felice di aver cominciato la mia carriera a Veroli: una piccola città dove tutti hanno grandi sogni e grande determinazione, dove abbiamo fatto cose importanti”

-Dopo è arrivata la chiamata di Bamberg e dell’EuroLeague.

“E’ stata una chiamata inattesa, volevo giocare in EuroLeague, ma non pensavo succedesse così velocemente. Sono stato fortunato, perché a quei tempi la seconda divisione in Italia era molto competitiva, c’erano tante buone squadre e grandi giocatori. Così quando sono andato a Bamberg ho capito di essere stato preparato bene, grazie alle squadre e agli allenatori con cui avevo fatto esperienza in A2”.

-L’Olympiacos ha vinto due volte di fila l’EuroLeague, un fatto raro da parte di una squadra evidentemente speciale.

“Sì, quella squadra era speciale per la chimica che si era creata dentro e fuori del campo. I giocatori che c’erano, Vassilis Spanoulis, Pero Antic, Georgios Printezis, Joey Dorsey, Sloukas… Tutti noi abbiamo grandi ricordi di quello che abbiamo ottenuto, ma la chimica ha fatto la differenza, eravamo come fratelli. Sono convinto che quella sia la ragione che ci ha portato a vincere così tanto. Ci fidavamo l’uno dell’altro, ci piacevamo sinceramente uno con l’altro e volevamo solo il meglio per gli altri. Questa è la cosa più importante”.

-Il CSKA Mosca ha sempre una squadra fortissima, ma tutta la sua stagione sembra decidersi alle Final Four di EuroLeague. E’ difficile giocare con questa pressione?

“E’ difficile, ma al tempo stesso è quello che vuoi come giocatore. Competere ogni anno per vincere titoli. E’ la ragione per cui ci alleniamo ogni giorno: vincere titoli. Al CSKA ogni anno il tema è vincere l’EuroLeague o fallire. Ci preparavamo mentalmente tutta la stagione per vincere una o due partite alle Final Four. Ma quello è il tipo di pressione che mi piace, che voglio. Tutti i giocatori che aspirano al successo ad un certo punto devono capire come gestirla. Io sono stato fortunato di sperimentare quel tipo di successo due volte con quella squadra e vincere tanto”

-Kyle Hines è il giocatore americano che ha vinto più volte l’EuroLeague, quattro. Sensazioni?

“E’ una soddisfazione incredibile – un risultato eccezionale –  realizzare di essere in cima a quella graduatoria, considerando quanti grandi giocatori americani sono stati in EuroLeague e hanno costruito qui la loro carriera. E’ un grande risultato, un onore, ma mi auguro di vincerne ancora una o due di EuroLeague, prima che la mia carriera finisca”.

-Ma negli Stati Uniti è possibile spiegare le dimensioni di questo successo?

“Quello che ho fatto qui onestamente non riesco a spiegarlo a casa perché spesso non lo comprendo neanche io. Come atleta pensi sempre a cosa ti aspetta, finisci una partita e ti preoccupi di quella dopo, finisci una stagione e subito pensi a quella seguente. Alla fine, non sono mai riuscito a prendermi un attimo per comprendere la grandezza di vincere l’EuroLeague o altri titoli. Ma un giorno quando la mia carriera sarà finita, cercherò di farlo e assaporarlo sul serio. La mia famiglia mi ha sempre sostenuto in tutte le mie squadre, nella mia città tutti sono a conoscenza di quello che sta accadendo, anche loro mi sostengono. E quest’anno saranno grandi tifosi dell’Olimpia Milano”.

-A inizio carriera Kyle Hines aveva numeri eccezionali, ora è conosciuto soprattutto come grande difensore.

“Invecchiando ho capito che dovevo avere un ruolo specifico, soprattutto in squadre di alto livello, e interpretarlo al meglio avrebbe permesso alle mie squadre di vincere più partite. Personalmente, sono orgoglioso quando riesco a fare una buona difesa, proteggere l’area, difendere sulla palla, aiutare la squadra diventando una presenza in difesa. E in attacco cerco di fare quello di cui la squadra ha bisogno, che sia piazzare blocchi, prendere rimbalzi offensivi, eseguire il passaggio giusto, segnare qualche canestro, credo che il mio ruolo sia stato questo per tutta la mia carriera e ha aiutato le mie squadre ad avere successo”.

-Da sempre è un cosiddetto “undersized”, un centro sottodimensionato rispetto agli avversari.

“Mi piace, mi diverte, mi diverto ad andare contro giocatori più grossi, a giocare contro di loro, mi piace essere una specie di sfidante, che la gente sottovaluta. E’ qualcosa che mi esalta, a dispetto della mia taglia, a dispetto della mia statura posso dimostrare che la percezione di me è sbagliata”.

-Dopo una carriera come questa, per cosa gioca Kyle Hines, quali motivazioni?

“Per me non cambierà mai nulla, gli obiettivi sono sempre gli stessi, vincere trofei, vincere campionati. Questa è la ragione per cui sono venuto all’Olimpia Milano. Per essere parte di un club, di una squadra, di un gruppo che aiuti a riportare il maggior numero di titoli a Milano, che sia in Italia o in EuroLeague. Questo è l’obiettivo, questo è quello su cui sono concentrato. E credo debba essere così per tutti qui, abbiamo messo assieme una squadra che può finire la stagione vincendo dei titoli”.

-Il point-man è Chacho Rodriguez: avete vinto l’EuroLeague insieme a Mosca.

“Chacho rende il mio lavoro molto più facile, quello che devo fare è portare un blocco e liberarmi, o correre lungo il campo. Abbiamo un grande rapporto in campo e fuori. Nei due anni che abbiamo speso insieme a Mosca abbiamo sviluppato una grande chimica insieme. Lui è una delle ragioni per cui sono qui: ho l’opportunità di giocare ancora insieme a lui, sviluppare il nostro rapporto in campo. A Mosca abbiamo vinto tanto insieme. Spero di potermi ripetere qui”.

-A casa svolge un grande lavoro per i ragazzi della sua comunità.

“La mia città è Sicklerville, nel New Jersey, una piccola città in cui io, mio fratello, la mia famiglia, abbiamo creato un’accademia cestistica. Facciamo diverse cose con i ragazzi, camp, clinic, abbiamo istituito una borsa di studio, e quest’anno abbiamo donato un campo da basket alla comunità per dare ai ragazzi la possibilità di giocare in un posto che possono chiamare casa e magari riuscire a ottenere gli stessi risultati che venendo dallo stesso posto, da Sicklerville, abbiamo ottenuto noi”.

Fonte: Olimpia Milano.