Intervistato da Ubaldo Saini sulla “Tribuna di Treviso”, Justin Alston ha raccontato della sua esperienza molto traumatica da piccolino: “Eh sì, posso tranquillamente definirmi un miracolato. Avevo cinque anni quando ho avuto un terribile incidente in auto. Ero sul sedile posteriore, ad un certo punto lo sportello si è aperto e sono volato fuori. In quel momento è sopraggiunto un camion che mi è letteralmente passato sopra, per fortuna senza calpestarmi, altrimenti non sarei qui a raccontarlo. Me la sono cavata con una frattura della scatola cranica e mi sono rotto un sacco di denti, ma grazie a Dio ce l’ho fatta. Ed è per questo che ho una fortissima fede in Dio, che è sempre con me e mi protegge”.
Da adolescente, Alston è iniziato a crescere in altezza: “Ed era una cosa davvero strana perché tutti gli altri componenti del mio nucleo familiare sono piuttosto bassi, nessuno supera il metro e ottanta. Vedendo che crescevo tanto, tutti mi spingevano a giocare a basket. Io ho provato anche baseball e football, ma alla fine ho scelto la palla a spicchi quando avevo circa dieci anni, e mi sono trasformato in una sorta di “blue collar”, un operaio del basket. Mi piaceva impegnarmi ogni giorno per costruire la versione migliore di me stesso”.
Prima di arrivare in Italia, Alston ha girato il mondo da professionista: “La mia prima esperienza, forse la più significativa, è stata quella in Germania. Per la prima volta ho capito cosa vuol dire fare la vita da professionista, lontano da casa. Avevo un ruolo in squadra ben definito e dovevo esprimermi al meglio. Nell’ultimo anno ho giocato in tre squadre: avevo cominciato in Israele, poi sono arrivati i bombardamenti e ho chiesto al mio agente di trovarmi un’altra sistemazione. Quindi Paok, e infine Cina, dove tutto è diverso, il gioco è molto più egoistico e si pensa soprattutto a segnare”.
Quali sono i suoi modelli da giocatore? “In campo, a Tim Duncan. A volte mi capita di tirare appoggiandomi alla tabella, e questo è un tiro che ho imparato da lui. Mio papà è un grande fan degli Spurs e li guardavamo spesso in televisione. Nella vita invece il mio modello è mia madre. Le sono infinitamente grato per tutto quello che ha fatto per tutti noi figli. Spesso tornava a casa distrutta dal lavoro, ma riusciva sempre a tenere in ordine la casa, a darci da mangiare, a farci trovare dei vestiti puliti, e ad accompagnarci agli allenamenti. Spero un giorno di essere un genitore bravo almeno quanto lei”.
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