Studente di Giurisprudenza, impiegato bancario, giocatore, aspirante giornalista, vice-allenatore, scout, General Manager. Amante della pallacanestro, della vita, della sua famiglia. Dell’assorbire piccole realtà come Forlì e Treviso e poi immergersi in metropoli gigantesche, vedi Toronto, Oklahoma City o Istanbul. Curioso per natura, per propensione e per necessità. L’estrema sinossi della biografia di Maurizio Gherardini potrebbe sintetizzarsi a sua volta in poche righe, poche parole. Perché condensare una carriera simile non è affatto semplice, stracolma di differenti responsabilità appaiate ad altrettanti ruoli svolti inizialmente dentro il campo, prima di slacciarsi le scarpe attorno al 1980 per dedicarsi a ciò che ci costruiva fuori dal parquet. Un percorso sempre in crescita, di quelli che ci si augura sostanzialmente in qualunque occupazione si intraprenda. Con una prima tappa naturale, rappresentando sempre il biancorosso della sua Forlì prima in campo, poi sulla panchina ed infine in dirigenza, dove rimase fino al 1992. “Bisogna sempre avere il desiderio di perseguire dei sogni. Questo era un sogno per un giovane baskettaro di provincia, ed è diventato il progetto di una vita, il senso di una vita”, ci racconta.
Tra la prima tappa del suo percorso e quella successiva a Treviso, dove fu fondamentale nel mettere le fondamenta tecniche ed umane per la nascita di una leggendaria e vincente cavalcata verso trofei nazionali ed internazionali, Maurizio Gherardini ha posto le basi per quello che sarebbe arrivato successivamente. All’epoca non lo sapeva, ma avrebbe iniziato a girare il mondo attorno al pallone.
“La mia miglior palestra di vita”, ricorda l’esperto dirigente forlivese, “è stata la gavetta a Forlì, costretto a seguire un pochino tutto di una piccola società, dai problemi del settore giovanile all’assistentato in Serie A, passando per la vita di segreteria: quei primi anni sono stati estremamente formativi”, Maurizio Gherardini aggiunge sulla sua prima esperienza cestistica professionale.
Il migliore dei General Manager, e il diretto interessato non può che appartenere ad un novero ristretto in tale categoria, è di per sé curioso. “È molto importante essere attivi, propositivi e curiosi. Fare il General Manager vuol dire essere un filtro, un punto di riferimento per la società fra l’ownership group, lo staff tecnico, i giocatori, i media. Ma è anche importante sapere cosa succede nel ticketing, nel Marketing, nei Social Media. In tutte le varie aree della tua società”, sottolinea.
Il suo nome, come già ricordato, sarà però sempre accomunato all’epopea della Benetton Treviso, con cui aggiunge alla bacheca personale quattro Scudetti (1996-97, 2001-02, 2002-03, 2005-06), sette Coppe Italia (1993, 1994, 1995, 2000, 2003, 2004, 2005), tre Supercoppe Italiane (1997, 2001, 2002), una Coppa d’Europa (1994-95) e una Coppa Saporta (1998-99), oltre a raggiungere le Final Four di EuroLega nel 1992-93, 1997-98, 2001-02 e 2002-03.
Tutto ciò in un mandato di 14 anni, con una concorrenza spietata tanto entro i confini italiani quanto all’estero. In più, il lavoro a Treviso non era esclusivamente mirato ai risultati sul campo. Ma anche a stimolare cultura sportiva, diffondere il valore della pallacanestro come componente formativa. “Fummo tra i primi in Europa per alcune iniziative di questo tipo. Non è stato un caso che a Treviso sia nato l’EuroCamp o il ‘Basketball Without Borders’. Volevamo investire in quella direzione lì”, dice.
Un primo avvicinamento con l’oltreoceano avvenne nel 2003, tre anni prima che si concludesse la sua parentesi biancoverde alla Benetton. “Mi contattò la dirigenza degli Charlotte Bobcats e mi trovai in corsa per diventare il primo General Manager nella storia di questa nuova franchigia. Arrivai in finale [con Bernie Bickerstaff], ma anche senza vincere fu un processo incredibile per imparare come vivere quel mondo da dentro. Fu veramente un’esperienza unica”, ricorda. Un’esperienza formativa non da poco, considerando che dal 2006 la sua vita si spostò del tutto in NBA.
“Ho avuto la fortuna di finire in società di grande visione e di grande qualità”, dice della sua esperienza ai Raptors, “perché Toronto cercava di guardare avanti rispetto ai tempi NBA, in tante cose. Dal reclutamento internazionale all’organizzazione del reparto medico-sanitario e di quello analytics. Perché fummo, credo, la prima franchigia in NBA che decise di assumere due persone a tempo pieno per ragionare sui numeri”, aggiunge.
La sua parentesi a Toronto lo portò anche a contribuire allo sviluppo di un intero movimento cestistico, quello canadese, che negli ultimi anni sta raccogliendo i frutti. Dapprima come Managing Director del Settore maschile della Federazione nell’arco di sette anni, e ad oggi come membro permanente del Council of Excellence di Canada Basketball. Dopo l’acero arrivò il vischio dell’Oklahoma con una stagione ai Thunder, fino alle sfumature dell’orizzonte sul Bosforo.
Un’altra componente comune nei finora 42 anni di Maurizio Gherardini da dirigente sportivo di assoluto livello è lo scouting che va oltre il campo. “In tanti siamo bravi e validi a identificare il talento ma io credo che il talento debba sposarsi ad altre doti: lì c’è la sfida e l’intuizione. Il valore di un giocatore diventa molto più impattante quando vai a pesare il suo motore, l’approccio mentale, il pesare le piccole. Ho sempre cercato di riconoscere la personalità al di là dei numeri”, dice.
L’aver potuto lavorare a stretto contatto con leggende della panchina come Zeljko Obradovic o Ettore Messina e in organizzazioni stellari, poi, aiuta. “Ho avuto la fortuna di poter approcciare o reclutare un giocatore offrendo non solo una bellissima città, un club estremamente organizzato, ma quasi sempre anche allenatori di incredibile bravura e contesti vincenti, cercando di arrivare sempre al massimo livello possibile. È un biglietto da visita che alla fine pesa”, aggiunge.
Dal maggio 2014, il nome di Maurizio Gherardini si affianca ai successi della sezione della pallacanestro maschile per una polisportiva che vanta attorno ai 30 milioni di tifosi in tutto il mondo: il Fenerbahce. L’essere parte di una grande famiglia che rappresenta i medesimi colori attraverso nove discipline sportive è un altro dei fattori nella moltiplicazione degli stimoli, della curiosità.
Il pluripremiato dirigente classe 1955, infatti, dice che in questi anni è “andato a cercarsi l’interscambio”. Come? Beh, interfacciandosi con la sezione cestistica femminile, una delle più vincenti nel contesto internazionale e da cui sono passate Brianna Stewart e Candace Parker, passando per Diana Taurasi fino ad Emma Meesseman – e la nostra Cecilia Zandalasini, oggi altra italiana in Turchia con il Galatasaray.
Una squadra guidata da Valérie Garnier (FIBA Hall of Fame), preceduta da Marina Maljković e Víctor Lapeña, con i quali ha scambiato opinioni, pareri e visioni. Arricchendosi, ancora una volta. Lo stesso è valso con un’altra eccellenza italiana all’estero come Giovanni Guidetti, allenatore di pallavolo della Nazionale serba femminile e del VakifBank di Istanbul. In un Paese dove il calcio è ancora lo sport di riferimento, Maurizio Gherardini ha a suo modo contribuito allo sviluppo della pallacanestro in Turchia, dove negli ultimi anni tra Fenerbahce ed Efes sono state vinte tre edizioni dell’Eurolega.
Un panorama dove i successi sono accompagnati dagli investimenti infrastrutturali e di sistema, che “generano interesse ed entusiasmo, portano giovani, tifosi e nuovi addetti allo sport”. Raccogliendo l’eredità che ha guadagnato nei suoi 18 anni all’estero, Maurizio Gherardini traccia una linea con il nostro movimento sportivo sottolineando quanto importante sia affiancare i grandi successi sportivi a concretezza sul territorio. Un aspetto su cui l’Italia, da dove è partito, potrebbe ancora migliorare. Ad ogni modo, guardandosi indietro, pensa a quanto sia grato per queste opportunità.
“Un’esperienza incredibilmente eccitante per chi è innamorato di basket. Ho avuto il privilegio di vivere grandi club, ambienti, proprietà in bellissime città, tra Italia e vent’anni di estero. Di collaborare con grandi personaggi, di gestire giocatori che hanno fatto molta strada e naturalmente di vincere, perché vincere ti aiuta anche a ricordare meglio le cose che sono passate”.
C’è un’altra cosa da aggiungere alla sinossi della biografia di Maurizio Gherardini: una passione sconfinata.
Commenta
Visualizza commenti