È stato grande protagonista del match vinto ieri contro Portorico, e domani pomeriggio sarà chiamato a un’altra prova da protagonista per portare l’Italbasket in finale al Torneo Preolimpico di Belgrado. Per Nico Mannion questa è la seconda esperienza con la nazionale maggiore, dopo la finestra dell’estate 2018 per le qualificazioni al Mondiale cinese. Rispetto a tre anni fa, quando il debutto in azzurro arrivò da liceale, il nativo di Siena e figlio di Pace è arrivato a questo appuntamento da giocatore NBA, dopo la stagione da rookie ai Golden State Warriors.
Alla vigilia della sfida alla Repubblica Dominicana, Mannion ha parlato a Sportando della sua esperienza in azzurro, tra il campo e anche il significato a livello personale.
Dopo queste due settimane in gruppo, quali differenze trovi di più tra il basket FIBA e quello NBA?
Penso soprattutto a una regola come i 3 secondi difensivi, che ti fa sentire il campo più piccolo. Qui le decisioni sono prese più velocemente e tutti qui sanno giocare, sono molto versatili sui ruoli. Credo che nel gioco influisca il modo in cui si cresce, l’allenamento è diverso e credo che qui si lavori sui fondamentali molto presto, da giovanissimi, e si vede. Penso però che nonostante le differenze siano due pallacanestro molto belle e stimolanti da giocare.
Ai Warriors hai molti compagni con esperienze internazionali, hai avuto la possibilità di parlare con loro di cosa questo significhi?
Non ho avuto la possibilità, in realtà, ricordo soltanto qualcuno nello spogliatoio una volta parlare dell’importanza e del grande significato di giocare con la propria nazionale rappresentando il proprio paese. Ho parlato di queste cose con Paolo Banchero, che quest’estate non è potuto venire per gli impegni con Duke. Gli ho detto di non prendere quest’occasione alla leggera, è la possibilità di rappresentare il paese d’origine della tua famiglia, è un’occasione speciale.
Quale pensi sarà l’eredità più grande, per te, di quest’estate con la nazionale?
Sicuramente l’esperienza in sé. Quest’anno in NBA ho giocato qualche partita, ovviamente avrei voluto giocare di più, ma ho anche vissuto l’esperienza in G-League che è stata importante. Queste settimane di allenamento, di partite, con la possibilità di giocare una pallacanestro diversa, sono tutte cose che porterò indietro con me in America.
Cosa significa per te avere la tua famiglia in tribuna, sapere che ti stanno guardando giocare?
Significa il mondo. Sono venuti a vedermi dal vivo un paio di volte quest’anno in NBA, ma sin da che ho memoria ricordo di averli sempre visti alle mie partite, al liceo, all’università, ovunque nel paese. C’erano sempre mamma e papà: il fatto che dallo Utah siano venuti in Serbia a vedermi giocare mi dimostra quanto mi siano vicini. Nella mia vita ci sono stati sempre, e io ho sempre saputo che potevo rivolgermi a loro nei momenti difficili. È una cosa che mi conforta, che mi dà più forza anche quando sono in campo. Ricordo ancora oggi la mia prima partita con la nazionale tre anni fa in Olanda, mia madre e mio padre erano entrambi lì: durante l’inno li ho visti, e mia madre stava piangendo. Mia madre è molto orgogliosa del fatto che io giochi con l’Italia, e lei mi trasmette questo orgoglio. La loro gioia è contagiosa, mi fa battere il cuore forte.
Le tue difese nel finale di primo tempo contro Portorico hanno cambiato la partita e propiziato la rimonta della squadra. È qualcosa su cui senti di avere lavorato molto negli anni?
Uscendo dal college la difesa era il punto debole che tutti mi indicavano. Quando uno mi guarda non pensa immediatamente al fatto che io sia un atleta, so di non passare l’eye-test. Ma dentro di me so che posso essere un buon difensore, che posso difendere in 1 contro 1 contro la maggior parte dei miei avversari diretti. Contro gente come Steph o Kyrie tutti fanno fatica, puoi solo rallentare dei giocatori così. Ma quest’anno ho lavorato tanto sulla mia difesa, sul poter creare sempre problemi ai miei avversari. Giocando come backup in NBA è importante saper portare una presenza difensiva in ogni momento in cui entri in campo. Quando sono arrivato in NBA e l’ho dimostrato, la gente ha capito che sono in grado di farlo, ma so che devo continuare a crescere. Ieri (giovedì), guardando la partita dalla panchina nei primi 8 minuti, mi sono reso conto di quello di cui la squadra aveva bisogno. Aveva bisogno d’energia, soprattutto in difesa. Portare qualcosa del genere genera effetti positivi su tutta la squadra, ci si aiuta a vicenda lavorando insieme e l’attacco di conseguenza migliora.
L’ultima volta che l’Italia ha giocato in una Olimpiade tu avevi 3 anni. Siete potenzialmente a due vittorie dal raggiungere quello che per molti atleti è l’obiettivo di una vita. Come squadra sentite la pressione o è più la fame, la voglia di dimostrare?
Penso di poter parlare per tutti nel dire che abbiamo fame, abbiamo tanta voglia di fare bene. Personalmente… Venendo qui dagli Stati Uniti, essendo lontano da casa e dai miei amici, anche dalla mia famiglia che non posso vedere nonostante siano qui, essere tutti in una bolla isolati ci fa crescere la voglia di fare bene, di vincere. È un contesto che ti fa mettere da parte la tua vita e concentrarti su un obiettivo. Non sono venuto qui per giocare tre partite. Sono venuto qui per vincere, e voglio vincere. Daremo tutto, porteremo tutto ciò di cui c’è bisogno, per andare alle Olimpiadi, qualcosa che non riesco nemmeno a descrivere. Sarebbe speciale, non esistono parole adatte. Saremmo orgogliosi di noi stessi. Orgogliosi di avere rappresentato al meglio il nostro paese, di avere ripagato l’affetto dei tifosi e di chi ci vuole bene.
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