Ci ha lasciati Franco Casalini. Aveva solo 70 anni, era nato l’1 gennaio del 1952 a Milano. Lascia il fratello Paolo. Non era sposato, non aveva figli, per Franco Casalini l’Olimpia era sinonimo di famiglia, quella famiglia di cui entrò a far parte nel 1972 a soli 20 anni. I suoi anni all’Olimpia, prima nelle giovanili (con quattro titoli), poi come assistente della prima squadra, poi storico braccio destro di Dan Peterson e infine capo allenatore, sono stati i più intensi nella storia del club. Da capo allenatore, Franco Casalini – che è membro della Hall of Fame del club di cui è stato uno dei selezionatori originali – ha vinto la Coppa dei Campioni del 1988, a soli 36 anni (è stato il più giovane coach italiano a vincerla) e lo scudetto del 1989, quello conquistato a Livorno. Inoltre, aveva guidato la squadra da debuttante alla vittoria nella Coppa Intercontinentale del 1987, a Milano. “Era innamorato dell’Olimpia e di quello che rappresentava, è stato un amico e compagno leale. Se poi andiamo a vedere le vittorie, quanti possono dire di aver fatto meglio?”, diceva ieri Peterson.
Fu Cesare Rubini a portarlo al Simmenthal nel 1972 quando aveva 20 anni. Lo ingaggiò senza proporgli grandi soldi, solo tanta fatica e onore. Lasciò la sua società di origine, la Social OSA, e sbarcò in via Caltanissetta. Negli anni successivi l’Olimpia diventò di fatto la sua casa: interminabili giornate trascorse in palestra, a lavorare sui fondamentali, per un ideale. E quando arrivava il weekend e non ci si allenava, le giornate venivano spese in giro per l’hinterland milanese, alla ricerca di giocatori, idee, informazioni o anche solo perché quella era la vita che lui, e altri come lui, si erano scelti. Nel 1977, Casalini aveva 25 anni quando diventò l’assistente di Pippo Faina nel primo anno di Mike D’Antoni all’Olimpia. Il playmaker era più anziano dell’assistente allenatore, per questo quando diventò head coach della squadra Casalini si considerava un “Co-coach” o una sorta di “primus inter pares”.
Nel 1978, diventò l’assistente storico di Coach Dan Peterson (l’altro era Guglielmo Roggiani che purtroppo ci ha lasciato anche lui). Come assistente, vinse quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa Korac. Con le vittorie, Peterson diventò sempre più personaggio, sempre più difficile da arginare dentro i confini del basket. Poi aveva questa idea di non voler allenare troppo a lungo. Ogni anno quando finiva la stagione, diceva di voler smettere. E a quei tempi non c’era alcun dubbio su chi sarebbe stato il suo erede. “Ogni anno il dottor Gabetti (presidente-proprietario dell’Olimpia a quei tempi – ndr) mi chiamava e diceva che Peterson avrebbe smesso offrendomi di diventare capo allenatore – raccontava proprio Casalini qualche anno fa – Ma dopo qualche giorno arrivava puntuale la controtelefonata, era lui o il nostro general manager Toni Cappellari: Peterson aveva deciso di continuare. Non era mai una sorpresa: sapevo che non si sarebbe mai ritirato prima di vincere la Coppa dei Campioni e io come assistente ero felice che continuasse ad allenare”.
La Coppa dei Campioni era il chiodo fisso dell’Olimpia, almeno dal 1983 quando a Grenoble perse la finale-derby contro Cantù in un finale rocambolesco e confuso. “La stessa telefonata mi arrivò però nel 1987 dopo la vittoria della Coppa dei Campioni. Quando Gabetti mi fece la rituale telefonata, tornai a casa chiedendomi se avrei ricevuto di nuovo la sua telefonata di contrordine. Invece a chiamarmi fu Peterson”, raccontava Franco. Il Coach fu lapidario: “Ciao Franco, adesso sono cavoli tuoi…”.
Tanto perché capisse in fretta che cosa lo avrebbe atteso, il primo impegno dell’Olimpia nella nuova era fu la Coppa Intercontinentale, a Milano tra l’altro. “Eravamo gli organizzatori, venivamo dal Grande Slam, eravamo strafavoriti e dovevamo vincere”, disse Casalini ripercorrendo le tappe della sua carriera. Non proprio un atterraggio morbido. Poi il debutto contro il Barcellona. C’era Candido Sibilio, un’ala piccola fenomenale. L’Olimpia perse la prima partita, ma poi non perse più e vinse il trofeo: “Vincere quel trofeo diede a me un enorme sollievo. Onestamente, sentivo la pressione del debutto”, ebbe a dire.
Nella storia dell’Olimpia ci sono state alcune mosse storiche. Di Peterson si ricorda la marcatura di Larry Wright, 1.85, con Vittorio Gallinari, 2.08. Ma anche Casalini aveva il suo aneddoto. Nel 1988, il problema di Milano era la marcatura delle ali piccole, un difetto che sarebbe costato lo scudetto contro la Scavolini di Darren Daye. Ma in Coppa dei Campioni, il problema evidenziato da Candido Sibilio a inizio stagione si ripresentò tale e quale nelle Final Four di Gand. La semifinale era contro l’Aris Salonicco. La minaccia rappresentata da Nick Galis e Panagiotis Giannakis era evidente, ma Casalini temeva il bomber serbo Slobodan Subotic. “Mi venne in mente una notte… affidarlo a Meneghin. Forse perché sapevo che era un giocatore di tale grandezza che poteva fare tutto. Dicevo sempre che non giocava playmaker per sua scelta, ma poteva farlo. Non mi ritenevo un vero allenatore, ma un primo tra gli uguali. Quando decisi di far marcare Subotic a Meneghin mi consultai con i miei coetanei, con Dino e Mike D’Antoni, oltre che con Toni Cappellari. Ci trovammo a pranzo per discuterne. Non ci avevano neanche apparecchiato. Chiesi a Dino se se la sentisse e rispose sì. D’Antoni disse che era una buona idea. In 12 secondi avevamo deciso”, fu il suo racconto. L’Olimpia sconfisse l’Aris, poi anche il Maccabi e vinse la Coppa dei Campioni.
Con D’Antoni e Meneghin, l’altra star era ovviamente Bob McAdoo. Casalini lo conosceva meglio di tutti, perché l’aveva allenato tre anni da capo allenatore a Milano, uno da assistente, e poi l’aveva avuto anche a Forlì. Un anno dopo la Coppa dei Campioni, Casalini conquistò anche lo scudetto, nella celebre finale di Livorno, quella del tuffo di McAdoo. “E’ una partita che ricordo come se fosse avvolta in una nebulosa, non ricordo esattamente l’andamento. Eravamo abituati a vedere cose fuori del comune, ma quel tuffo non l’avevamo mai nemmeno immaginato, perché non faceva parte di lui, del suo repertorio, non era certo il suo cavallo di battaglia. Aveva eseguito stoppate decisive, preso rimbalzi decisivi, ma una cosa del genere a metà campo, un volo di cinque o sei metri, che poteva anche essere inutile, mi sono chiesto come poteva venire in mente ad un giocatore di 38 anni”, fu il suo racconto.
Casalini è rimasto all’Olimpia 18 anni. Se ne andò dopo la stagione 1989/90, quando Mike D’Antoni dopo essersi ritirato diventò immediatamente il capo allenatore del club. “Sono stati gli anni decisivi della mia vita, senza quei 18 anni non sarei la stessa persone, per me l’Olimpia non è la mia casa, è la mia vita”, ha detto. Franco Casalini lo piangiamo oggi, lo piangeremo sempre.
Commenta
Visualizza commenti