“Buon compleanno Casa dello Sport”. Nella giornata del 4 luglio, mentre Sky festeggia i suoi 20 anni con una giornata e ospiti indimenticabili, Sportando si concede una chiacchierata con la voce del basket più nota, Flavio Tranquillo.
20 anni vissuti al microfono di Sky. Il mondo degli appassionati è passato tra molteplici fasi, con diverse conoscenze, diversi materiali a disposizione, diverse richieste. Come è cambiato il tuo modo di raccontare l’evento?
«Non è cambiato intenzionalmente, programmaticamente. Non mi sono seduto ad un tavolo per dirmi “adesso cambio”. E’ un processo diverso, si aggiungono delle cose, spariscono delle altre, è quel che chiede l’innovazione, anche tecnologica, non solo tecnologica. Non cambia tanto quanto si aspetta il pubblico, che è quello che cerco o meglio spero di rispettare: sono io stesso che passo attraverso i medesimi processi che attraversano loro. Esempio: prima dei 20 anni di Sky, ci sono stati i 12 di Tele+. I video arrivavano dalle cosiddette “pizze”…».
Hai vissuto per tutta la tua carriera al fianco di altre grandi redazioni sportive. Come sono cambiati i tuoi gusti? Sono stati influenzati?
«La mia generazione giunta a Cologno Monzese nel 1991, quella dei Caressa e Porrà, veniva da un concetto ben chiaro: qualsiasi cosa fosse sport, la si guardava. L’offerta era troppo esigua, ogni occasione andava presa, cotta e mangiata. La mia formazione è stata quella di divorare sci, tennis, Formula 1, calcio ovviamente, e certo il basket. Poi c’era un forte interscambio personale. Nella terza età mi sono più focalizzato sul lato business e valoriale dello sport. Non è calcio, non è basket, ma sport. Una prospettiva che manca. Non mi piace fare confronti, tra macro e micro mondi, come dire “che mi piace l’EuroLeague ma non mi piace l’NBA”. Se mi attrae a livello estetico, mi basta, non ne faccio altre questioni».
E arriviamo all’NBA. Il mondo che hai narrato più a lungo. Scendiamo nell’attualità. E’ finita l’era delle dinastie, degli imperi, ed è iniziata quella dei “campioni di passaggio”? Un anno Giannis, un anno Jokic, un anno magari Embiid o Tatum…
«Genericamente posso dire di sì. Un ciclo storico ha bisogno di tempo per essere considerato tale. E’ complesso giudicare un’era o una tendenza mentre la si sta vivendo. La questione centrale è la parity, l’equità competitiva, il pilastro dell’agire in NBA. Facendolo sempre di più, e sempre meglio, i risultati sono figli di quanto viene programmato. I meccanismi attuali garantiscono davvero a chi parte da dietro un’occasione per arrivare davanti lavorando bene. E siccome si tende a lavorare sempre più bene, il vantaggio programmatico si palesa. Quindi si può dire che l’avvicendamento in alto sarà sempre maggiore. Denver, Milwaukee, Phoenix… realtà che sono state poco ai vertici ora ci arrivano sempre più, non è un caso. Chiaramente, resta quella parte di imponderabile che può cambiare le carte in tavola».
La parola chiave del momento è Victor Wembanyama. Accolto in NBA come LeBron e come Zion. E si sprecano le previsioni su quanto possa essere immediato il suo impatto. Tu cosa ne pensi?
«Allora, Victor Wembanyama ha un potenziale elevato. Evidente. Come è evidente che chi pretende di sapere che cosa farà nei prossimi tre/cinque/dieci anni, bleffi. Normale essere attratti e seguire con curiosità un giocatore dalle caratteristiche così peculiari e particolari, ma diamogli un naturale tempo di sviluppo. Allora vedremo dov’è e ci faremo delle idee su dove sarà».
Wembanyama arriva dall’Europa, come Jokic e altri grandi campioni. Eppure la distanza pare aumentare, basti pensare al via della free-agency NBA, con i tesseramenti di Micic o Vezenkov.
«C’è la tendenza a pensare che Wembanyama, o Vezenkov, o Micic siano l’Europa. Il singolo fenomeno è importante, ma l’interazione di fenomeni è più importante. Prima di Jokic c’era Ginobili, è evidente come da tempo si siano accordi che ci siano vari motivi per monitorare l’Europa. Ma il tema è un sistema di protezionismo per l’Europa? Se non intervengono dei ragionamenti a livello generale mi sembra difficile. La realtà ci dice che qui c’è un know-how di reclutamento e sviluppo, e una materia prima, che è appetibile per una rete di imprese che ha una posizione che va oltre il dominante. Basta prendersi un bigino di economia per capirlo. Una parte della sopravvivenza del resto del mercato arriva dalle risorse della parte dominante, ma quest’ultima in cambio vuole Doncic e Wembanyama. Parliamo di un mondo da 10 miliardi di revenues e di uno da 90 milioni».
E in NBA c’è stato il sogno cullato per mesi dal basket italiano, Paolo Banchero. Qual è la tua visione sui fatti?
«Il terreno è minato. Quando si parla di questi argomenti si attraversano campi che non hanno niente a che vedere con questo argomento. Politici, culturali. Campi rispettabili, che mi interessano, ma non assocerei patriottismo e nazione a quanto accade su questo versante. Prediamo la scelta di Banchero, o quella di Melli facendo un nome a caso. Sono due professionisti che, come tali, devono tenere i loro interessi professionali nel massimo riguardo. Faccio fatica ad imporre loro altre considerazioni. La critica a Banchero mi pare lunare, non era difficile da immaginare. Tutto era nato quando era un ragazzo in attesa di scegliere il college, ora è un giocatore NBA…».
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