Bob McAdoo è stato uno dei più grandi stranieri che abbiano giocato a Milano e in generale nel basket italiano. Arrivò nel 1986, a 35 anni, quando la sua carriera NBA era al termine. Restò quattro stagioni contribuendo al Grand Slam del 1987, prendendo parte ad almeno quattro gare epiche della storia dell’Olimpia. Con 1.292 punti segnati nell’allora Coppa dei Campioni è stato per oltre 30 anni il primo realizzatore di sempre dell’Olimpia. Non lo è più. Ma l’evento serve per ripensare a tutto quello che ha fatto il grande McAdoo.
Robert Allen McAdoo nacque nel 1951 a Greensboro nel North Carolina. Cominciò a fare canestro a quattro anni ed era una promessa già alla David Jones Elementary School dove la mamma Vandalia ha insegnato per tutta la vita. Quando arrivò all’età del liceo, decise di prendere il bus tutti i giorni per sperimentare il concetto di integrazione razziale nel sud degli Stati Uniti iscrivendosi alla Smith High anziché alla Dudley che era di fatto una scuola riservata agli afroamericani.
Il padre Robert sr, che lavorava come custode a North Carolina A&T, un college minore frequentato solo da ragazzi afroamericani, gli cantava le gesta di Al Attles che poi avrebbe avuto una buona carriera NBA a Golden State successivamente anche come allenatore e manager, alimentando la sua passione per il basket. Nel suo ultimo anno di liceo McAdoo portò Smith High alla semifinale del torneo dello stato e vinse il titolo di salto in alto valicando i 2.02. Un altro giocatore di basket, il bianco Bobby Jones, finì secondo. Era una star.
Il suo sogno era giocare in un college della ACC visto che da qualche anno Dean Smith aveva infranto la barriera del colore portando a North Carolina il grande Charlie Scott. Ma McAdoo non aveva ancora i voti giusti e dovette spendere due anni in uno junior college dell’Indiana, Vincennes. Vinse il titolo al primo anno segnando 27 punti in finale. Lo voleva John Wooden a UCLA ma lui voleva giocare a casa. Il padre non stava bene e da sempre sognava di vederlo giocare al college. “Dean Smith mi spiegò cosa avrebbe significato giocare a UNC senza garantirmi un ruolo o uno spazio. Era quello che volevo”, raccontò McAdoo al funerale del suo grande maestro.
North Carolina arrivò alla semifinale per il titolo NCAA. A quei tempi nessuno lasciava il college in anticipo e nessuno l’aveva mai fatto a UNC. Fu Smith a decidere per McAdoo. Aveva la possibilità di guadagnare troppo bene e mettere a posto la famiglia perché fosse saggio rinunciare.
Incredibilmente, venne scelto prima di lui un centro di nome Larue Martin che sostanzialmente sarebbe rimasto un comprimario. Con il numero 2 del draft McAdoo andò ai Buffalo Braves, upstate New York. Il primo anno McAdoo venne utilizzato da ala, qualche volta ala piccola. La squadra era una tragedia. Lui insisteva per giocare centro ma sarebbe successo solo a fine stagione. Nondimeno fu rookie dell’anno. Al termine della stagione, ai Braves arrivò un nuovo allenatore, Jack Ramsay, moderno, pieno di energia e idee. Lo trasformò nel miglior “shooting center” della Lega. 30.6, 34.5, 31.1 le sue medie punti in tre stagioni consecutive. Nel 1974 finì secondo nella classifica dell’MVP e si indignò. Nel 1975 fu MVP e basta. Ramsay avrebbe presentato McAdoo alla cerimonia di ammissione alla Hall of Fame.
Buffalo con Ramsay in panchina e McAdoo in campo diventò una delle migliori squadre della Lega: 42, 49 e 46 vittorie in tre anni con altrettante partecipazioni ai playoffs. Ma qualcosa si ruppe e per McAdoo fu l’inizio della parte buia, enigmatica, misteriosa della sua carriera. Si sentiva sottopagato e cominciò a farlo sapere. Venne accusato di aver ingigantito le dimensioni di un infortunio. Un affronto. Il 9 dicembre del 1976 fu scambiato ai New York Knicks, ansiosi di tornare al vertice, come al solito attratti dalle grandi star.
I Knicks avevano talento, McAdoo, Spencer Haywood, Micheal Ray Richardson, Ray Williams ma poca chimica. Ironicamente per avere McAdoo, i Knicks mandarono a Buffalo un certo John Gianelli che l’avrebbe preceduto a Milano. Giocò 171 partite a New York con 26.1 punti e 12.0 rimbalzi di media. Ma i Knicks si qualificarono per i playoffs solo nel 1978. Nel febbraio del 1979 venne ceduto a Boston e sette mesi dopo si ritrovò a Detroit. I Celtics firmarono ML Carr come free-agent. A quei tempi si doveva compensare: i club si incontrarono e i Pistons accettarono di ricevere McAdoo girando ai Celtics (una rapina!) due prime scelte del 1980. Quelle due scelte sarebbero servite ai Celtics per avere da Golden State Kevin McHale e Robert Parish. I Warriors le usarono per Joe Barry Carroll e Rickey Brown. L’Olimpia nel destino. Ancora.
A Detroit andò peggio, venne tagliato, firmato dai Nets dove rimase fino al Natale del 1984 quando Bill Sharman, il general manager dei Lakers, decise di acquistarlo per il suo squadrone. Fu così che approdò ai Lakers dello Showtime: per il bene comune doveva partire dalla panchina ovvero accettare un ruolo da sesto uomo che però gli calzava a pennello. Pat Riley usava il muscolare Kurt Rambis in quintetto e McAdoo nella seconda unità poteva sprigionare il suo talento offensivo. “Abbiamo preso McAdoo – disse Riley – valutando tutti i pro e i contro, abbiamo una chimica troppo forte per essere compromessa da un giocatore”. In pratica, McAdoo sapeva di non poter sgarrare e non lo fece. In quattro anni, giocò 224 partite, 12.1 punti e 4.4 rimbalzi di media. Nel 1982, segnò 16.3 punti per gara nella serie finale vinta contro i Philadelphia 76ers. Nel 1985 vinse il secondo titolo contro i Boston Celtics. “Era molto amareggiato quando i Lakers non lo confermarono. Pensava di meritarsi qualcosa di più perché aveva giocato bene e accettato la panchina”, racconta Peterson. Milano lo voleva un anno prima, ma lui tentò di restare nella NBA a Philadelphia per un anno.
“Avevo un buon rapporto con Dean Smith – racconta Peterson – Dopo i Sixers gli suggerì di considerare l’ipotesi europea. Noi eravamo pronti”. In Italia si sarebbe ricostruito tutto, anche oltre i quattro anni di Milano in cui vinse tutto, “vivendo i suoi anni migliori” come dice sempre Mike D’Antoni. I Sixers lo chiamarono di nuovo quando aveva già firmato per Milano, ma non trovarono terreno fertile. Bob era un uomo di parola. Rimase sorpreso quando al debutto il pubblico urlava “Doo Doo” come a Los Angeles. Era merito delle telecronache di Peterson. Le prime settimane furono complicate. La stagione si sarebbe conclusa con il Grande Slam del 1987, ma cominciò con una salita ripidissima, attraverso un’impresa che sarebbe entrata nella storia.
Per vincere la Coppa dei Campioni, la Tracer doveva accedere al durissimo gironcino finale a sei squadre dopo un turno preliminare che a quei tempi era considerato quasi una formalità. Ma quell’anno non lo fu. L’Olimpia venne abbinata all’Aris Salonicco. “A quei tempi non c’era lo scouting di adesso, le informazioni erano frammentarie”, ha ammesso nel suo libro Franco Casalini, assistente di Dan Peterson ai tempi. In altre parole, l’Aris venne in parte sottovalutato. Poi era fine ottobre e Milano non era in forma.
Fatto sta che nella bolgia di Salonicco, l’Olimpia venne spazzata via, perse con uno scarto di 31 punti che suonava come una condanna. 98-67. Nick Galis, il primo grande giocatore greco, di scuola americana, nativo del New Jersey, laureato a Seton Hall, fece 44 punti. Per lui fu una sorta di introduzione nell’olimpo del basket europeo: nel corso della sua carriera Galis, con il compagno di avventure Panagiotis Giannakis, avrebbe portato la Grecia al titolo europeo. Un anno dopo quella gara allucinante di Salonicco, l’Aris avrebbe giocato la semifinale ancora contro l’Olimpia. Quindi la squadra greca era a pieno titolo in grado di competere ai massimi livelli. Nessuno però avrebbe potuto immaginare una disfatta simile per una formazione come la Tracer che puntava dichiaratamente al titolo.
Sette giorni dopo il Pala Trussardi fu testimone di una delle più grandi imprese/sorprese della storia. L’Olimpia non giocò affatto con lo spirito di chi è rassegnato ad una clamorosa uscita di scena. Giorno dopo giorno, la sensazione che si potesse fare, senza alcuna spiegazione razionale, cominciò a serpeggiare. Dan Peterson indicò la strada: un punto al minuto e ce la faremo, non serve rimontare tutto in una volta. L’Olimpia giocò una buona partita offensiva ma soprattutto una grande partita difensiva, tenne l’Aris a 49 punti, vinse di 34, segnandone 83 e festeggiò in mezzo al campo come se la Coppa dei Campioni fosse stata vinta quel giorno. E forse fu davvero così.
Nell’immediato dopo gara, Peterson afferrò McAdoo e disse “Hai visto che miracolo abbiamo fatto?”. “Coach, quale miracolo? Eravamo tutti sicuri di farcela”. “Sicuri?”. “Certo, abbiamo visto il nostro allenatore così calmo che non avevamo dubbi”. In realtà, Peterson era stato zitto una settimana, imprigionato dalla tensione, aspettandosi una catastrofica eliminazione. “Quella sera forse salvammo anche la carriera italiana di Bob perché se fossimo andati fuori non so cosa sarebbe successo”, raccontò in seguito Mike D’Antoni. “Bob dice che quella è stata la partita più fisica della sua vita e anche l’unica volta in cui ha pensato a stoppare ogni tiro, prendere ogni rimbalzo ma non a quanti punti avrebbe segnato e dice anche di non aver mai visto Meneghin così teso prima di una partita”, dice Peterson.
“Il Grande Slam del 1987 è stata la più grande impresa della mia carriera”, ammette McAdoo. Il 2 aprile 1987 a Losanna, l’Olimpia doveva completare l’opera. Aveva i tifosi alle spalle, il popolo biancorosso contro la valanga gialla del Maccabi capitanata da Kevin Magee, il maciste dell’area, giocatore fisico, passato da Varese che poi avrebbe trovato la morte in Louisiana, ancora giovane. Nel 1987, Magee era nel fiore della carriera, era al top. Era due metri di altezza ma era anche largo, forte, fortissimo e giocava dentro l’area. Il giocatore perfetto per Dino Meneghin. L’altro americano era Lee Johnson: da rookie aveva vinto la Coppa Korac con Rieti. Era alto, leggero, elegante, buon tiratore. Un fenicottero con il jump shot. Ma Bob McAdoo era un’altra cosa. Esperto, alto 2.08, con un tiro rapido, bruciante, non bellissimo ma efficace. Ad aprile, McAdoo era ormai entrato in sintonia con la squadra, la competizione, l’ambiente. Fu lui a catturare il rimbalzo sul tiro corto di Doron Jamchy della vittoria, 71-69. In quattro anni a Milano, McAdoo vinse due Coppe dei Campioni (la seconda nel 1988 con Franco Casalini in panchina al posto di Dan Peterson), due scudetti, una Coppa Italia. L’ultimo scudetto fu quello della bolgia di Livorno e della sua giocata più memorabile.
In gara 5, sull’80-77 per Milano, Livorno aveva Alberto Tonut in contropiede dopo una palla persa da D’Antoni. Nessuno in quel momento realizzò che il tuffo con cui McAdoo gli deviò la palla oltre la linea di fondo sarebbe diventato probabilmente il singolo atto più famoso nella storia dell’Olimpia o dell’intero basket italiano. La bellezza del gesto è indescrivibile, il cuore ancora di più. La sorpresa è di Tonut: intento a proteggersi da Albert King, che gli corre accanto alla sua sinistra, si volta senza capire come abbia fatto la palla a sfuggirgli di mano. In quel momento, come un siluro, McAdoo completa il tuffo tra le braccia di operatori tv, fotografi e tifosi appollaiati tutti sulla linea di fondo. “So che se ne parla ancora – dice McAdoo – fu una giocata atipica perché ammetto che in tanti anni di NBA non avevo mai fatto nulla di simile. Non so cosa sia scattato”. “Eravamo abituati alle sue gesta, a cose incredibili, lo vedevamo tutti i giorni in allenamento quindi sul momento l’ho archiviato come un’altra grande giocata di Bob, per quanto inusuale per lui – disse il povero Casalini qualche anno dopo – È dopo, a mente fredda, che resti basito”.
Dopo Milano, McAdoo avrebbe giocato a Forlì e poi addirittura due partite a Fabriano a carriera finita. Nel 1991 perse la moglie Charlina, un’ex Laker Girl che aveva fondato il “Dance Team” dell’Olimpia, il primo, assieme a Laurel D’Antoni. A Forlì avrebbe poi conosciuto e sposato Patrizia che con lui sarebbe rientrata negli Stati Uniti dove Bob ha avuto una buona carriera da assistente allenatore dei Miami Heat, voluto ancora da Pat Riley.
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