Sergio Rodriguez: Le Final Four si godono se le vinci. Se perdi ti lascia una grande incazzatura
Chacho: Mi resta un anno di contratto, ogni opportunità che hai devi viverla al massimo perché non sai se tornerà
Sergio Rodriguez ha parlato a Marca alla vigilia della semifinale di Final Four di EuroLague contro il Barcellona.
Queste le parole del Chacho (traduzione via RealOlimpiaMilano)
Dicono che sia più facile vincere le Final Four che arrivarci. Sei d’accordo?
«È molto difficile arrivarci. Il sistema della competizione dell’Eurolega è il più duro in qualsiasi sport. Sono 10 mesi di stagione regolare molto dura, quindi i playoff e, se li passi, allora tutto si decide in un fine settimana. E quest’anno è stato ancora più difficile a causa di tutti i problemi di mobilità che si sono verificati con la pandemia. Arrivare a questo fine settimana e in piena condizione non è facile».
Nonostante la difficoltà per arrivarci, giocherai la tua settima Final Four.
«Di tutti gli anni in cui sono stato in Eurolega, mi è mancata solo l’anno in cui l’ho giocato con l’Estudiantes, il secondo a Madrid, e nell’ultima stagione, in cui non si è disputata. Questo mi rende felice. Inoltre, con tre squadre diverse, e l’ho vinta due volte con squadre diverse… sono molto orgoglioso».
La prima, nel 2011, eri un giovane. Ti ha formato?
«Il contesto allora era simile a quello che abbiamo qui a Milano. Il Madrid non la giocava dal 1996, 15 anni, qui sono quasi il doppio. Il club non ci arrivava da 29 anni. In quella Final Four era tutto strano perché Ettore [Messina] aveva lasciato prima dei playoff, Lele Molin ha ereditato squadra e, alcuni giocatori a parte, non c’era esperienza. In una Final Four, mentre le giochi, ti rendi conto dell’importanza di averne vissuta una prima. Questo ci ha aiutato negli anni successivi e, anche se abbiamo perso due finali dopo, abbiamo vinto il titolo. Nel 2011 ho passato la semifinale molto velocemente. Il gioco è volato e non abbiamo avuto tempo di reazione».
*Sei cambiato molto da allora?*
«Sì. L’essenza è la stessa perché ho ancora lo stesso entusiasmo, ma aver vinto l’Eurolega mi dà la sicurezza di sapere come devo prepararmi e come devo affrontare la partita, anche se poi non sai cosa può succedere».
La voglia di vincere è sempre la stessa?
«Le Final Four si godono solo se le vinci. È la pura verità. È il suo grosso problema: lo festeggi quasi come un titolo, ma se perdi ti lascia una grande incazzatura. Normale, in ogni partita delle Final Four ce ne sono tre o quattro diverse. Vediamo quest’anno, perché altre volte ci sono tante distrazioni in hotel, con i fan, la famiglia … Quest’anno non sarà così».
Hai 34 anni. Credi sia l’ultima Final Four della tua carriera?
«Ogni volta che ne giochi una potrebbe essere l’ultima. Ecco perché devi spremere tutto sino all’ultima goccia. Mi resta un anno di contratto, ogni opportunità che hai devi viverla al massimo perché non sai se tornerà. Ma la cosa migliore è fare le cose in modo naturale. Sono partite importanti in cui hai pressione, ma devi anche divertirti».
A Milano tutti saranno impazziti.
«L’atmosfera è molto buona. Non abbiamo la vicinanza del pubblico ma li sentiamo in città, sui social e al club. È una grande stagione. Abbiamo vinto la Supercoppa, la Coppa Italia, siamo entrati nei playoff e ora arriva la cosa più importante e più bella, che è vincere i due titoli che pesano di più, l’Eurolega e la LBA. C’è una grande unità in squadra. A causa delle restrizioni, abbiamo passato molto tempo insieme, ci siamo legati. Ettore ci ha detto l’altro giorno che avevamo già più di 80 partite in questa stagione. È incredibile, ma abbiamo la certezza di aver fatto le cose bene. Ora, per competere al massimo».
La sua settima Final Four, la quinta per Datome, la nona per Hines e la dodicesima per Messina. Sembra una squadra nata per vincere adesso. Cè un senso di emergenza?
«Emergenza no. Si è lavorato per avere una squadra solida e competitiva. Si comincia con Hines, il miglior americano nella storia dell’Eurolega, e con Datome, un italiano di altissimo livello che ha giocato in NBA. Sono buone basi per poter competere».
Si è parlato molto della Final Four negli spogliatoi durante la stagione?
«Sì, presto abbiamo capito che potevamo competere contro chiunque. Quest’anno non ci sono stati favorite così lampanti come negli anni scorsi. Tutto è stato molto aperto e l’obiettivo era presente in noi. Non siamo mai usciti dalla zona playoff, siamo stati quasi sempre nelle prime posizioni. Confidiamo nelle nostre possibilità. Siamo una squadra pericolosa. Se dovessi giocare contro l’Olimpia sarei abbastanza preoccupato perché abbiamo esperienza, talento e tante armi a disposizione».
Delle quattro sembrate la meno accreditata, e partire con il Barcellona non aiuta…
«Le Final Four sono due partite e lì non si può parlare di favoriti. Il Barça ha avuto una stagione molto solida, è stato molto bravo nella maggior parte di essa anche se contro lo Zenit ha sofferto più del previsto, ma ha una grande squadra, è molto ben allenato e sembra affamato di vittorie».
Le gare con lo Zenit vi hanno indicato qualcosa?
«Siamo una squadra diversa dallo Zenit. Ci ha insegnato che dobbiamo cercare di restare in partita, sempre. Il Barça è molto fisico e abbiamo avuto problemi le due volte che abbiamo giocato contro di loro. Dobbiamo avere un livello di energia molto alto».
Come vedi Pau Gasol?
«Ottimo. Non è facile quello che sta facendo dopo l’infortunio, alla sua età … È molto competitivo e uno dei migliori nella storia del basket mondiale. Ha giocato sotto pressione per tutta la sua carriera e ha vinto. Questa Final Four è una grande occasione per lui, sarà molto motivato».
Ti vedi a giocare fino ai 40 anni come lui o Felipe Reyes?
«Ho sempre detto che dall’età di 33 o 34 anni bisogna essere in una situazione molto favorevole per continuare a giocare, con fame ed entusiasmo, che è il motore principale. Sono molto competitivo e questo è qualcosa che mi aiuta a continuare. Avere l’esempio della generazione ’80, che sono ancora lì, è più facile, anche se questo non significa che devi essere in buone condizioni. Ora con una famiglia e tre figli, tutto è più complicato».
Con tutto il basket che hai vissuto, ti vedi come un allenatore?
«Qualche anno fa, meno. Adesso, un po’ di più. È difficile per me non vedermi legato al basket. Sarà difficile per me vivere senza di lui, anche se non so in che modo. Mi piace molto quello che faccio e ho bisogno dell’adrenalina per competere».