Pozzecco: Mi ero imposto di guardare la NBA, ma dopo 4 partite mi veniva da vomitare…

Poz: Il mio più grande rammarico è di aver rifiutato il contratto con i Toronto Raptors dopo un’ottima summer league per non rischiare. A Varese stavo da dio, guadagnavo bene: per i soldi ho rinunciato al mio sogno

Gianmarco Pozzecco, coach del Banco di Sardegna Sassari, è stato il protagonista della sesta puntata di

Meet The Best incontra, un format di A Better Basketball che torna già questo pomeriggio, in diretta sulla

pagina Facebook e sul canale Youtube di ABB dalle ore 18, con un mito del basket, Mike D’Antoni,

allenatore degli Houston Rockets.


Questi alcuni temi trattati dal tecnico della Dinamo nell’incontro di sabato al quale anche gli appassionati

hanno potuto partecipare con le loro domande live e i loro commenti.


Come ha trascorso le giornate dopo lo stop al campionato


Sono stato molto occupato, arrivo a sera con la sensazione di non aver fatto tutto quello che avrei voluto.

Sono un appassionato di basket e sono andato a rivedere anche vecchie partite per il piacere di farlo più

che per aggiornamento professionale. Ho partecipato a tante riunioni con altri allenatori ed è stato utile

perché confrontare la pallacanestro che mi piace con quella degli altri mi ha fatto riflettere, creato nuovi

dei dubbi, fatto cambiare delle idee, migliorare. Sono contento perché dopo questi due mesi sento di

essere diventato un allenatore più strutturato ed avere più certezza della direzione che voglio prendere,

che non pretendo sia da considerare quella giusta, ma è quella che mi rappresenta. La cosa fondamentale

per una squadra è l’identità anche dell’allenatore, perché se ne hai una è più facile che sia compresa anche

dai giocatori.


Quale direzione ha preso il Pozzecco allenatore?


La mia idea di pallacanestro si basa su tre punti. Il primo è cambiare una squadra il meno possibile se hai

le possibilità economiche per trattenere i giocatori, perché più si gioca assieme più la squadra migliora. La

seconda è cercare di avere un nucleo con una identità europeo-italiana, perché non c’è dubbio che la

pallacanestro che si gioca qua e in America è differente. Mi ero imposto durante questa pausa di guardare

più partite Nba che potessi per aggiornarmi, dopo la quarta mi veniva da vomitare perché tutto è

bellissimo, luccicante, meraviglioso ma non è il mio modello di basket. La terza è il gioco in post basso

che per me è indispensabile in un attacco perché è fondamentale anche per la difesa. Me lo diceva

Pianigiani l’anno scorso, mentre nel tunnel aspettavamo di entrare per le semifinali dei playoff: "giocare

contro di voi è difficile perché tirate da vicino, non concedete rimbalzi lunghi e siete pronti per difendere

il contropiede". Se come giocatore so di essere stato uno dei migliori, come allenatore devo ancora

studiare tanto. Una esperienza fondamentale è stata fare l’assistente a Zagabria, perché il ruolo del vice è

soprattutto analitico e l’analisi del gioco è una delle carenze con cui partono gli ex giocatori quando

diventano coach.

Sui successi a Sassari e Capo d’Orlando


Non è un caso che le mie migliori esperienze da allenatore siano arrivate in Sardegna e in Sicilia, a Capo

d’Orlando. Io sono una persona con dei macro difetti, cosa che ho sempre pagato, ma anche una sensibile,

che riesce a dare il meglio di se stessa e a raggiungere risultati che anch’io non riesco a immaginare in

situazioni umane per me ideali. A Sassari e in Sicilia le persone hanno una ospitalità particolare, ti sono

molto vicine a livello umano, mi fanno sentire a mio agio ed è una cosa che ha certamente aiutato i

risultati delle squadra che ho allenato.


Il più grande rammarico


Nel 2001 giocai la summer league con Toronto, disputai una prima, grande, partita e il giorno dopo i

dirigenti dei Raptors passarono ore col mio agente per definire il contratto. Mi venne subito mal di

schiena, ma comunque riuscì a fare discretamente: era chiaro che potessi giocare a quel livello, anzi

essere uno dei migliori della summer league. Arrivò l’invito al veteran camp e mi spiegarono la

situazione: eravamo tre play per due posti. Non avevo certezze ma, in pratica, mi sarei giocato le mie

chanches al 50% con Carlos Arroyo, una cosa possibile. Ma a Varese stavo da dio, avevo un ottimo

contratto, guadagnavo tanto: decisi di non rischiare. E’ una cosa di cui mi pento ancora oggi perché per i

soldi mi ero precluso la possibilità di sognare.


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