Paolo Banchero partecipa al talk “Paolo Banchero: 20 anni come noi”
“È la prima volta che vengo in Italia. Tutti sanno che parte della mia famiglia proviene da questo Paese e io ho sempre sognato di visitarlo”
Buon compleanno Casa dello Sport: Paolo Banchero ha partecipato al talk "Paolo Banchero: 20 anni come noi", insieme a Federica Masolin. Di seguito alcuni estratti del suo intervento negli studi di Sky.
È la prima volta che vengo in Italia. Tutti sanno che parte della mia famiglia proviene da questo Paese e io ho sempre sognato di visitarlo. Essere qui è davvero speciale per me. La mia famiglia arriva dal Nord Italia, da Genova, e mio padre mi ha sempre parlato delle mie origini. Il mio nome negli Stati Uniti è unico. Crescendo mi sono accorto che nessuno si chiamava come me. Ero curioso, volevo sapere perché mi chiamassi così, per questo mio padre mi ha raccontato delle mie origini, di quel ramo di famiglia che avevo in Italia e di cosa ne era stato. Da quel momento mi ha sempre intrigato l’idea di venire qui e saperne di più.
Mia madre mi ha sempre ispirato molto. Era un’allenatrice di basket, e da quando sono nato fino a quando avevo 13, 14 anni ha sempre continuato ad allenare. Da ragazzino ogni giorno andavo in palestra con lei, così che potesse tenermi sott’occhio: mi portava agli allenamenti, mi permetteva di stare in giro e vedere come allenava la squadra. È sempre stata severa con me e mi ha insegnato molte cose sia sul basket che sulla vita. Al tempo non è stato facile, io ero solo un ragazzino e vedevo mia madre essere molto dura con me; ma quando diventi più grande e ti guardi indietro realizzi che molti di quegli insegnamenti di allora mi sono utili ancora oggi e per questo non posso che esserle eternamente grato. Nel basket è stata sicuramente la fonte d’ispirazione più importante per me.
Il football americano è stato il mio primo grande amore, anche se sono cresciuto giocando a basket. Mio padre giocava a football. Quando ho cominciato, da subito ero abbastanza bravo, mentre ho dovuto lavorare molto di più per migliorare nel basket. Su un campo da football tutto mi riusciva più naturale. È stato il mio primo amore, sono cresciuto amandolo, giocandoci con i miei amici, guardandolo in tv. Ancora adesso lo seguo spesso. Quando sono arrivato al liceo però ho iniziato a crescere molto e dopo il mio primo anno ho dovuto smettere perché ho raggiunto i 2.03 metri: stavo iniziando a giocare a basket in maniera più seria, e quando arrivi a una certa altezza diventa difficile stare su un campo da football. Così, grazie al basket, ho iniziato a partecipare a diversi campionati nazionali in tutta America e ho iniziato a costruire una certa notorietà. Sono stato reclutato da parecchie scuole e questo mi ha dimostrato che il mio sogno non era poi così lontano. La gente ha iniziato a dirmi che avevo una chance di andare in NBA e quando mi son convinto che quella opportunità c’era allora ho scelto di crederci fino in fondo, e lavorare il più duramente possibile per arrivare dove sono adesso.
L’ultimo anno è trascorso velocissimo, e sono successe tantissime cose, dall’essere stato la prima scelta al Draft al titolo di rookie dell’anno. È successo tutto molto rapidamente ma ho imparato molte cose. Sto vivendo il mio sogno: se qualcuno mi avesse detto a 13 o 14 anni che sarei diventato la prima scelta al Draft, probabilmente l’avrei guardato come se fosse pazzo e avrei riso, perché mi sarebbe sembrata una cosa fuori da questo mondo anche solo pensarlo. Ma restando concentrati, lavorando duro, le cose sono successe in maniera naturale, Dio aveva un piano per me e sono stato fortunato a farcela. La serata del Draft non la dimenticherò mai. Essere selezionato, sentire il commissioner NBA pronunciare il mio nome è stata la realizzazione di un sogno. Ho pianto di gioia per la prima volta. Non avevo mai provato emozioni del genere. Mi ricordo tutto di quello che è successo quella sera, le persone dei Magic che ho incontrato, la conversazione col mio allenatore al telefono, ricordo tutto in maniera così vivida. È stato un momento fantastico.
Devo sicuramente ringraziare coach K, coach Krzyzewski. Ha sempre incoraggiato me e i miei compagni di squadra a godermi l’esperienza del college e a interagire con gli altri studenti, con i professori per vivere al meglio l’esperienza a Duke. Lui è stato lì praticamente tutta la sua vita, allena Duke dagli anni Ottanta e la conosce meglio di chiunque altro. Ci ha sempre detto da subito di goderci l’ambiente, perché per tanti di noi – e anche per me – è un’esperienza che fai una volta sola, per un solo anno. In molte altre scuole per esempio capita che la squadra di basket viva in un dormitorio o in un palazzo a parte. Lui, invece, ha permesso subito a noi matricole – a me e ad altri tre ragazzi – di stare con gli altri studenti, senza distinzione tra ragazzi e ragazze. Quando tornavamo a dormire in stanza ci capitava di incontrare altri studenti, ragazzi normali, gente che era in classe con noi, e con cui avevamo interazioni quotidiane. Ci ha fatto sentire come tutti gli altri studenti di Duke. Poi, certo, quando fai parte della squadra di basket ti porti dietro una certa "star power", le pressioni e le attenzioni sono maggiori, ma credo che coach K abbia fatto un grande lavoro nel farci sentire a nostro agio e ben accolti. Il suo obiettivo principale è crescere delle brave persone. È stato molto duro con me. Non mi ha mai concesso un giorno libero. Voleva tirare fuori il meglio da me. Tutti motivi per cui mi sono sempre fidato di lui e che mi hanno spinto a voler giocare per lui. Sapevo che non mi avrebbe certo dato solo pacche sulle spalle e complimenti: mi ha detto cose che non volevo sentirmi dire, ma mi ha sempre aiutato a dare il massimo. Una lezione che ho imparato da lui e che dico sempre a tutti è quella di mostrarsi sempre forti, dentro e fuori dal campo. Non mostrare debolezze, non mostrare frustrazione, ma essere sempre forti, stoici, nel modo di comportarsi e di presentarsi, perché non vuoi che gli altri capiscano quali sono le tue debolezze e le sfruttino. Per questo, il tuo linguaggio del corpo non deve far trasparire emozioni, ma essere forte.
Credo che la mia miglior qualità sia versatilità. Sono in grado di fare qualsiasi cosa, su un campo da basket non c’è niente che io non sappia fare. Posso giocare in ogni ruolo, sia in attacco che in difesa. Sono anche uno che gioca per la squadra, in campo sono altruista e voglio sempre vincere. La volontà di vincere credo sia una delle mie qualità migliori, così come saperla trasmettere a tutti in squadra ed essere il miglior compagno possibile. Ma se parliamo di caratteristiche, la mia qualità migliore è la versatilità, la capacità di saper fare tutto in campo. Una caratteristica che vorrei rubare a un avversario? Non saprei indicare una giocata in particolare ma, per esempio, guardare come Nikola Jokic ha vinto il titolo è stato d’ispirazione. Vedere come gioca, come rende tutto più facile ai suoi compagni: è un ottimo compagno di squadra senza la necessità di fare una giocata spettacolare, un numero in palleggio o una schiacciata folle. Gioca semplicemente a pallacanestro nel modo in cui va giocata, fa i passaggi giusti, ha sempre le giuste letture e poi ha un gran talento. Riesce a rendere il basket semplice. Se ci fosse una cosa che vorrei rubare da un altro giocatore, prenderei la sua capacità di giocare a pallacanestro in modo semplice e di farlo nella maniera più efficiente possibile. Fa davvero un gran bel lavoro.
Di sicuro il nostro obiettivo è giocare i playoff. Questo è l’obiettivo numero uno di tutti, in squadra, giocatori e allenatori tutti vogliamo raggiungere questo traguardo. Personalmente voglio diventare anche un All-Star, l’anno prossimo. Quest’anno a inizio stagione stavo giocando ad altissimo livello, poi ho incontrato qualche ostacolo, gli infortuni mi hanno rallentato un po’, ma sono convinto che la prossima stagione potrò giocare a livelli da All-Star.