Olimpia Milano: Chacho Rodriguez, il Campione della Nostra Gente
Quella frase di Messina: “all’Olimpia Milano c’era stata un’epoca prima di Chacho Rodriguez e un’Olimpia dopo Chacho Rodriguez”
Dopo lo scudetto vinto nel 2022, prima dello scioglimento delle righe, Coach Ettore Messina davanti alla squadra, in spogliatoio, quando ormai era chiaro che sarebbe tornato a finire la carriera al Real Madrid, disse che "all’Olimpia Milano c’era stata un’epoca prima di Chacho Rodriguez e un’Olimpia dopo Chacho Rodriguez". Oltre le vittorie, le grandi prestazioni – tante -, il rapporto profondo con il pubblico di Milano, Sergio Rodriguez è stato questo. L’uomo della credibilità, un professionista al 100 percento che interpretava il suo ruolo con lo spirito del debuttante. Rodriguez era questo. Accanto a lui era impossibile non recepire la sua passione per il gioco, la gioia con cui giocava. E Chacho era un uomo spogliatoio: da leader poteva riprendere i compagni senza urtarne la suscettibilità. E al tempo stesso poteva allentare la tensione con una battuta o un sorriso, magari uno scherzo.
"Pronto Giovanni? Sono il Chacho. Siamo sul pullman, perché non sei qui? Dai, veloce, arriva". All’altra parte del telefono c’era Giovanni Tam, ragazzo delle giovanili Olimpia che allora era aggregato alla prima squadra. Era la prima trasferta stagionale. Tam non era stato convocato, non doveva venire, nessuno lo stava aspettando. Ma Chacho aveva deciso di spaventarlo un po’!
Chacho Rodriguez è arrivato all’Olimpia da Mosca dove aveva appena vinto le Final Four per la seconda volta in carriera, da grande protagonista. Quello che ha portato a Milano è stata la credibilità, ma non solo. Ha portato a Milano la forza di crederci, la forza di guardare in alto. La forza di battere il Real Madrid, di vincere a Tel Aviv. Di sbancare Mosca, di dominare a Istanbul, di giocare la Final Four e di tentare di vincerla. Non l’ha fatto da solo. Tra i suoi compagni di squadra ha avuto Malcom Delaney, Kevin Punter, Vlado Micov, Gigi Datome, Nicolò Melli, Kyle Hines, Shavon Shields. Ma Chacho con la sua personalità, con il suo carisma è diventato immediatamente una specie di uomo franchigia. Il volto di un’epopea.
"Ho giocato contro tanti campioni, qualche volta bene, qualche volta molto bene, qualche volta male, come può sempre capitare. Ma ci sono due giocatori, due giocatori che per me sono come la kryptonite per Superman. Contro di loro non c’è motivo per fare sempre male, eppure succede. Sono Lukas Lekavicius e John Di Bartolomeo".
Chacho è questo. È capace di commenti sarcastici e non importa se è lui la vittima della sua stessa ironia. Come quando, eravamo a Venezia nel mezzo di una di quelle trasferte lunghe una settimana che con il formato odierno dell’EuroLeague capitano spesso, raccontò la sua esperienza al draft NBA. "Sono andato a fare i work-out con le squadre NBA. In campo, a Boston, mi sono trovato a giocare a tutto campo contro i ragazzi americani, veloci, atletici, rapidissimi. Dopo cinque minuti, non ero più in grado di stare dietro a nessuno. Poi è arrivato il momento del colloquio, in cui ti chiedono di tutto. Non parlavo bene inglese, anzi non lo parlavo affatto. Mi chiedevano cose e rispondevo senza sapere cosa mi avessero domandato. Infatti, il mio predraft è stato un disastro". Non del tutto, se il ragazzo che portava i capelli rasati, che si era dichiarato con due anni di anticipo sulla tabella di marcia, venne scelto al primo giro da Portland. E poi ha giocato anche a Sacramento e a New York, con Mike D’Antoni in panchina. E infine è tornato per un ultimo giro a Philadelphia. I Sixers li stavano ricostruendo, ma lui non era lì nella stagione del record negativo. Non provate a dirglielo, ci tiene. Il record negativo lo fecero l’anno precedente il suo ritorno nella NBA.
"Non avevo mai portato la barba fino a quando un’estate, in vacanza, dopo le Olimpiadi di Londra, mi accorsi che la portavano in tantissimi e allora per scherzo me la feci crescere. Da quel momento, non l’ho più tagliata". È diventata una specie di carta d’identità, di marchio di fabbrica personale. Come il numero 13: "Una volta scelto, ho dovuto lasciarlo solo a Philadelphia perché era stato ritirato". In onore di Wilt Chamberlain, l’uomo che segnò 100 punti in una partita.
Negli anni d’oro del grande Real, Sergio fu MVP di EuroLeague partendo dalla panchina. Lo faceva Pablo Laso. Continuò Dimitris Itoudis a Mosca e così Ettore Messina a Milano. Perché un fuoriclasse come Chacho partiva dalla panchina? Perché oltre ogni spiegazione tecnica o tattica, si cela la realtà: perché Chacho poteva farlo senza sentirsi sminuito. Perché per lui non ha mai contato lo "starting five" ma il "closing five", il quintetto che finisce le partite, non quello che le comincia. Chacho è stato un campione perché ha sempre messo la squadra davanti a tutto, le vittorie come unico fine, e l’ha fatto divertendo e divertendosi. Con la sua fantasia, i passaggi dietro la testa, i palleggi tra le gambe, gli step-back. Era la versione europea di Jason Williams, il funambolo che giocava a Sacramento e vinse un titolo a Miami portando nella NBA il passaggio con il gomito, per dirne una.
"Vengo da Tenerife. Lì tutti tifano per il Real Madrid o per il Barcellona. Io avevo scelto il Real Madrid fin da bambino". La sua carriera vera è cominciata prima a Bilbao poi all’Estudiantes, ma dopo le stagioni di NBA è stato ben felice di costruirsi la propria storia al Real Madrid. E finire la carriera a Madrid è stato come chiudere un cerchio. L’ha chiuso vincendo l’EuroLeague del 2023. Avrebbe potuto essere l’MVP di quella vittoria.
A Madrid, avevano coniato un termine che identificava gli anni di Rodriguez in maglia bianca. "Chachismo". Si potrebbe adattare anche agli anni di Milano. Cos’era il Chachismo? Vincere una partita in modo brillante, spettacolare, ma comunque vincerla. Accettando un errore, perché non si ripeterà. Fidandosi del "processo" come dicevano a Philadelphia proprio nel periodo in cui da lì è transitato anche lui. Fidarsi del Chachismo ha portato al bellissimo scudetto del 2022, alle due Coppe Italia, la prima vinta dominando, alle Final Four di Colonia che non sarebbero rimaste uniche se l’anno seguente una squadra arrivata terza in stagione regolare non avesse affrontato, decimata, l’Efes nei playoff. I giocatori come Rodriguez di solito sono tante cose ma raramente vengono catalogati come coraggiosi, stoici. Chacho lo era. Oltre i passaggi dietro la schiena, i tiri da tre punti si nascondeva uno street-fighter e se necessario un "trash talker". Andò a giocare a Istanbul Gara 3 e 4 su una caviglia gonfia. Non c’era Nik Melli, non c’era Malcolm Delaney, la squadra aveva perso strada facendo Dinos Mitoglou e Gigi Datome giocò solo la quarta partita della serie. Rodriguez aveva deciso che ci sarebbe stato. Per poco non gli riuscì anche il miracolo di riportare la serie a Milano.
"L’abbiamo già fatto, rifacciamolo", disse il pomeriggio di Gara 4 a Istanbul. Quando radunò tutta la squadra in sala meeting mostrando un video che aveva fatto preparare personalmente per mostrare ai compagni tutto quello che erano stati capaci di fare durante soverchiando ogni tipo di difficoltà, infortuni (la mano rotta di Shields, tre mesi fuori), ostacoli per arrivare fino a quel giorno. Un leader, dentro e fuori del campo.
Probabilmente il più grande rimpianto per il Chacho è stato proprio questo: non essere tornato alle Final Four con l’Olimpia, non aver vinto l’EuroLeague con l’Olimpia come ha fatto con Real Madrid, due volte, e CSKA Mosca. La sconfitta di Istanbul però ha probabilmente cementato le possibilità di scudetto successive. L’anno precedente, l’Olimpia aveva condotto una stagione straordinaria, cominciata dominando la Supercoppa, proseguita dominando la Coppa Italia, la stagione regolare e raggiungendo le Final Four. A quella stagione era mancata solo una settimana, l’ultima, quella costata lo scudetto. Un anno dopo, Chacho è stato tra i protagonisti della vittoria che ha sanato un’anomalia. Con quella memorabile Gara 6, con due perle, il passaggio no-look per la schiacciata di Kyle Hines e la tripla da dieci metri, Chacho ha scelto il modo, la recita perfetta, per lasciare Milano senza lasciarla davvero.
"Non ho mai visto nulla di simile". Su Instagram, Mario Hezonja era stato categorico nel raccontare le sue sensazioni dopo la prima volta di Rodriguez a Milano, da avversario. Si riferiva all’accoglienza, che trasudava stima, rispetto, amore, un connubio indissolubile tra la città e il suo eroe. Ricambiata: la prima volta che l’Olimpia è tornata a Madrid, Chacho ha invitato tutti i suoi ex compagni e tutto lo staff a casa sua per un dopo cena. E la seconda volta, è passato in hotel a salutare tutti una volta di più. Un campione di stile è un campione per sempre.
Chacho ha giocato tre anni a Milano. Nel basket di oggi sono tanti ma non sono un’enormità. Tre anni sono un centinaio di presenze in EuroLeague, altrettante in campionato. Eppure, tre anni sono stati sufficienti per farlo entrare nella storia, nel Mount Rushmore dei campioni più amati, almeno per una generazione di tifosi. Rodriguez sta alla tifoseria dell’Olimpia attuale come Arthur Kenney ai tifosi degli anni ’70, come D’Antoni, Premier e Meneghin a quelli degli anni ’80. Non è una questione di tempo, è una questione di come è stato vissuto, interpretato, il tempo a disposizione. Quando è arrivato era un uomo maturo di 33 anni, una moglie innamorata dell’Italia e due bambine bionde e bellissime. A Milano, è nato il terzo figlio; a Madrid è nato il quarto. Guardi negli occhi Chacho e leggi la serenità di un campione e anche di un uomo felice. Chacho si è ritirato da pochi mesi. Per chi ha giocato a basket tutta la vita non è una transizione facile. Lo è di più se hai la consapevolezza di non aver mai tradito i valori del gioco; se hai una famiglia meravigliosa; e sai che la gente, la tua gente, a Madrid, a Milano, ovunque, ha capito chi sei.