La storia di Shabazz Napier: “Come quando avevo sette anni”
Dopo il suo esordio anche in EuroLeague riproponiamo la storia di Shabazz Napier così come ce l’ha raccontata lui al suo arrivo a Milano
Dopo il suo esordio anche in EuroLeague riproponiamo la storia di Shabazz Napier così come ce l’ha raccontata lui al suo arrivo a Milano.
IL BASKET – "Ho cominciato a cinque anni di età. Mio fratello giocava, è più grande, così quando ero molto piccolo ho iniziato guardando lui. Poi molti dei miei amici giocavano. Avevo un parco vicino a casa, molto conosciuto nella zona, si chiama Washington Park, e tutto quello che facevamo per tutto il giorno era giocare a basket, divertirsi. La mia passione per il basket è nata lì, quando ero molto piccolo, si è sviluppata nel tempo e continua a esserci".
COACH CALHOUN – "Jim Calhoun venne a vedermi la prima volta ad una partita AAU quand’ero credo un sophomore al liceo. Lo conoscevo ovviamente e così per me è stato poi molto facile decidere di giocare per lui a Connecticut. In quel periodo ho giocato bene nel circuito AAU. Sono stato fortunato che mi abbia visto e ad avere quella proposta di borsa di studio. Sono felice di essere andato a UConn".
IL PRIMO TITOLO NCAA – "È stato entusiasmante. Da combattente quello che vuoi è vincere, far parte della squadra che resta in piedi per ultima. Per me trovarmi in quella posizione è stato solo eccitante. Tutte le ore trascorse a lavorare e allenarmi, a preoccuparmi di essere al top della forma con il preparatore atletico. Il tempo speso a correre sulla collina del cimitero e lavorare durante l’estate si sono tradotte in un finale epico. Abbiamo vinto, abbiamo alzato il trofeo più importante. Chiunque giochi a basket o faccia sport in modo competitivo vuole far parte dell’ultima squadra che resta in piedi a fine stagione per alzare quel trofeo".
I TIRI LIBERI DELLA VITTORIA NELLA SEMIFINALE 2011 – "Tante volte, trovandomi in quel tipo di situazione ho pensato a quand’ero piccolo. A tutte le cose che ho dovuto fare e superare da piccolo. Quando cresci dove sono cresciuto io, nel mio quartiere, ci sono tante cose che sono al di fuori del tuo controllo. Ma quando giochi a basket quello che puoi fare è giocare appunto, divertirti, godertela. Nel mio caso, la passione che ho per il basket in un certo senso elimina tutte le negatività che ho sperimentato nella mia vita. Quando vado sulla linea di tiro libero, che sia a fine partita, senza più tempo per giocare oppure all’inizio della gara, non penso mai a quanto sia importante quel tiro, alle conseguenze che comporta segnare o sbagliare, penso solo a giocare, come ho sempre fatto, come facevo quando ero un bambino al parco, a sette anni. Penso solo a divertirmi e tirare e a fare canestro".
LA SCELTA DI RESTARE AL COLLEGE QUATTRO ANNI – "Il motivo principale per cui sono rimasto per la mia stagione da senior è che nel mio terzo anno eravamo sospesi dal Torneo NCAA, e questo mi aveva indispettito. Nel mio secondo anno, quello precedente, avevamo una delle squadre migliori del paese. Avevamo vinto il titolo l’anno prima e pensavamo di poterci ripetere. Ma quell’anno non ho giocato bene. E poi l’anno dopo, come ho detto, non potevo giocare il Torneo NCAA. In quel momento sentivo di avere un debito con UConn, con gli allenatori, con i tifosi e ho deciso che la cosa migliore era restare un altro anno. È andata decisamente bene, perché è stata una grande stagione. Ma in sostanza sono rimasto perché l’università mi aveva dato molto nei primi due o tre anni e sentivo di dover restituire qualcosa e finire meglio di come avrei finito se avessi lasciato".
IL TITOLO NCAA DA MVP – "Vincere il titolo è stato eccitante, è stato incredibile. Come ho detto per me conta solo vincere. Cerco sempre di fare il meglio individualmente, ma alla fine voglio far parte della squadra che vince, voglio alzare il trofeo, voglio superare il turno e avanzare nei playoff. Quello che mi piace del gioco non sono le conquiste individuali, ma le conquiste di squadra. Voglio essere il giocatore che vince di più, questo è ciò che mi interessa. Alzare il trofeo è l’unica cosa che voglio"
LA DIFESA DEI DIRITTI DEGLI STUDENTI-ATLETI – "Credo di aver detto quello che era necessario dire, credo che dagli studenti-atleti si pretendano standard diversi da quelli degli studenti comuni ma penso che sia stato fatto un passo avanti importante, non credo che quanto dissi sia stato decisivo anche se ebbe spazio sulla stampa, c’era già un movimento di quel tipo. Northwestern stava cercando un modo di pagare i giocatori di football. Questo è il motivo per cui mi fecero la domanda. Non credo che sia cominciato con me, ma forse ho aiutato a fare in modo che il movimento crescesse e gli studenti venissero in qualche modo retribuiti come sta succedendo adesso. Questo è un gioco, ma quando i soldi diventano parte del gioco, allora non è più solo un gioco".
LA NBA – "Penso che il posto in cui sono stato in grado di esprimere quello che sono capace di fare è stato Portland. Quando ero ai Portland Trail Blazers giocavo assieme a Damien Lillard e CJ McCollum e la possibilità di giocare contro di loro in allenamento ha aumentato il mio livello di autostima. E poi ho potuto vederli da vicino, vedere come si allenano mi è servito tantissimo. E ho usato tutto quello che ho appreso quando magari loro non potevano giocare e toccava a me. Ho giocato qualche bella partita in quelle situazioni e la mia fiducia è diventata ancora più solida. E successivamente anche a Charlotte ho fatto vedere cosa potevo fare a quell’altissimo livello".
LA TAGLIA FISICA – "Praticamente per tutta la mia carriera sono stato sempre il giocatore più piccolo in campo. Non dico solo da professionista, parlo anche di quand’ero bambino. Non sono mai stato il più alto o il più forte, ma ho sempre avuto talento per trovare il modo di aggirare i difensori, per trovare il modo di sfuggirgli e raggiungere certe zone del campo e trovarmi nella posizione giusta per segnare, per vincere, per rubare un pallone, per fare una stoppata. Con il tempo ho capito il gioco sempre meglio. Non sono mai stato il più alto e nemmeno il più veloce, ma ho usato il mio IQ per cercare di essere invece il più intelligente nel capire le partite. Studio tanto, quando perdo riguardo sempre la partita per capire cos’ho fatto, cosa avrei dovuto fare. E prima delle partite studio gli avversari, come ruotano in difesa, come si comportano quando devono cambiare, come reagiscono nelle situazioni di pick and roll, come difendono su giocatori simili a me, cerco di capire come posso manipolare la loro difesa, il loro attacco e dare alla mia squadra qualche chance in più di vincere la partita"
LA LEADERSHIP – "Quando ero molto giovane il mio problema era capire come gestire le emozioni, come imparare da solo certe cose e adesso vedete un leader migliore in campo, ma in verità non è sempre stato così, perché certe cose arrivano solo attraverso l’esperienza, capire qual è il modo migliore di raggiungere certi giocatori. Ad esempio, non puoi parlare a tutti nello stesso modo, a qualcuno devi parlare in modo più comprensivo, con altri puoi essere più rude, ma alla fine devono sapere che lo fai solo per aiutarli. Dobbiamo volerci bene a vicenda. Ma tutto si costruisce con il tempo, il tempo necessario perché capiscano chi sei, che tutto quello che vuoi è vincere e che hai passione per questo gioco. Sono comunque i compagni a permetterti di essere un leader, il merito è loro. Ma per me vale anche l’opposto, non ho problemi quando qualcuno mi dice quello che posso fare meglio per la squadra".