Giacomo Galanda: Alle Olimpiadi c’è promiscuità. Ma a Sidney avevamo Tanjevic sulla porta…

Giacomo Galanda: Alle Olimpiadi c’è promiscuità. Ma a Sidney avevamo Tanjevic sulla porta…

Giacomo Galanda per molti è ancora il “capitano”: Per la LBA è il momento in cui si può azzardare

Inserito nel miglior quintetto azzurro degli ultimi 20 anni insieme a Pozzecco, Meneghin, Gallinari e Belinelli, Giacomo Galanda per molti è ancora il “capitano”, che c’era quando l’Italia del basket vinse l’Europeo di Parigi nel ‘99 e anche nell’argento olimpico del 2004 ad Atene. L’ex giocatore, oggi collaboratore della FIP e promotore attivo del movimento 3×3, è stato protagonista in diretta a Basket dalla Media, dove ha parlato di tutto, dal passato al futuro.

Per cominciare col botto, l’argomento va subito sul suo ex compagno di squadra Gianmarco Pozzecco, noto per le sue follie dentro e fuori dal campo ai tempi, soprattutto, dell’anno dello scudetto della stella con Varese (1999).

“Ah c’era anche il Poz in quella squadra (attacca ridendo di gusto, ndr)? Sono arrivato in quella stagione come un elemento esterno insieme ad altri, in un gruppo che faceva capo a Poz e Menego. Gianmarco lo conoscevo già perché l’avevo incontrato da avversario fin dalle serie minori, era quello che dava gioie e dolori. Da una parte dovevi sopportare il suo carattere, dall’altra avevi uno che sapeva essere leader. La cosa che dico sempre è che lui prendeva in giro tutti quanti e nel momento in cui gli volevi dire qualcosa non te ne dava la possibilità perché si stava già prendendo in giro da solo. E’ sempre stato talmente avanti da non consentire agli altri di stargli passo. Era l’anima di quella squadra, che comunque era fatta dai Vescovi, dai Mrsic, Zanus Fortes, De Pol, tutti grandissimi giocatori. Il bello di quella squadra è stata la libertà che Recalcati ci lasciava per esprimerci. Un’esperienza incredibile”.

Poz, Meneghin e Recalcati, Galanda li ha poi ritrovati in tempi diversi, momenti divenuti storici per lui e per la pallacanestro italiana. L’Europeo del ‘99 e l’Olimpiade del 2004.

“Il Poz nel ‘99 non fu all’Europeo per i suoi dissapori con Tanjevic, che scelse il gruppo avendo le sue ragioni. E’ una delle chiavi della pallacanestro vincente: dover abbandonare l’ego per favorire il collettivo. Poz quell’anno era talmente carico da non essere forse pronto per quel gruppo, ma ebbe modo di rifarsi alle Olimpiadi del 2004, vissute da protagonista. Quando fai parte di questi gruppi non ti rendi conto di cosa stai facendo, di dove sei inserito, te ne accorgi dopo molto tempo. Ma se parliamo di quell’insieme di persone, quello di Varese, bisogna sapere che Poz non era il personaggio più folle. Un altro cavallo pazzo era Menego. Con lui il primo incontro è stato un raduno a Bormio con la Nazionale giovanile. Era solito non dormire mai e nonostante fossimo tutti cotti dagli allenamenti lui doveva tenere svegli tutti. Ti entrava in camera e faceva qualsiasi cosa per non farti dormire, un rompi palle clamoroso”.

Galanda nel miglior quintetto degli ultimi 20 anni della nazionale italiana secondo la FIBA…

“Con me Poz, Menego, Gallo e Beli. Fa piacere. Tante estati sono state sacrificate e anche tanti campionati, perché poi durante l’anno risenti delle fatiche estive. Però tutto ciò ha poi un senso quando ti torna indietro questa gratificazione. Fa molto piacere che la gente mi chiami ancora capitano, è rimasto dentro e questo è impagabile, non c’è contratto né null’altro che ti possa dare di più”.

Anni d’oro quelli dell’Europeo e dell’argento olimpico, non ripetuti in seguito.

“Io sono stato tanti anni in nazionale e per una decina di questi abbiamo vinto tanto. Io li chiamo gli anni d’oro ma non credo siano irripetibili. Per me dire ‘perderemo contro la Serbia’, come accadeva agli ultimi mondiali, è una cosa inaccettabile. La panchina della Serbia quando segnavano festeggiava, quindi non penso non avessero timore dell’Italia. Bisogna rimboccarsi le maniche e conquistarsi le partite, poi c’è la sfortuna, gli infortuni e mille varianti, però non è impossibile. Bisogna creare dei gruppi scommettendo sui giovani, sopportando anche i loro errori. Io da ragazzo avevo gente più forte di me davanti ma qualcuno ha visto qualcosa in me e ci ha creduto. E grazie a tanto lavoro sono arrivato lontano. Quando abbiamo giocato con gli Stati Uniti a Colonia nel 2004, loro erano fortissimi però ce la siamo giocata, cercando di farlo come volevamo noi, rallentando il gioco o velocizzandolo quando volevamo noi e alla fine l’abbiamo portata a casa. A me non piace dire ai ragazzi di crederci per forza, ma sicuramente bisogna provarci, perché se non lo fai non arrivi. Devi essere il più zen possibile con te stesso e dare il meglio. Questo ti porta delle soddisfazioni perché costruisci una tua identità, concetto sul quale ho sempre spinto perché una squadra senza identità non va avanti. Tu costruisci chi sei cercando di portare il gioco verso di te e questo dev’essere quello che ti porti dal campo a fuori, nel lavoro dopo la pallacanestro”.

Galanda negli ultimi anni si è buttato nel mondo del 3×3, spingendo in estate con un progetto chiamato 33BK, coinvolgendo tantissimi ragazzi fino alle finali Nazionali come evento clou della stagione.

“Abbiamo provato a organizzare una lega di 3×3 cercando di dare una struttura, per poi arrivare a una bella festa finale a livello nazionale. Abbiamo avuto un numero sempre crescente di iscritti, con partecipazioni anche di importanti tornei di 3×3 in Italia. Ora abbiamo un progetto interessante nel cassetto da voler condividere, l’Idea è di ritrovarci e riprendere il discorso”.

Gek si è poi prodigato per il basket a scuola. Si parla sempre tanto dell’arretratezza del nostro paese sulla cultura sportiva, ma lui che visione ha avuto dell’esperienza fatta negli ultimi anni in giro per gli istituti italiani?

“Noi siamo stati fortunati perché in questi tre anni di lavoro abbiamo trovato situazioni positive. Quando andavamo nelle scuole una delle richieste era avere una palestra per dare spazio a più bimbi possibile, quindi palazzetti o palestre con tribune. Ho trovato grande entusiasmo ma queste cose rimangono troppo spot perché non abbiamo le strutture. E’ su questo che bisogna interrogarsi e lavorare. Servono fondi, palestre, allenatori, dirigenti, giocatori e regole chiare. Quello che noi abbiamo visto è un’immagine fantastica ma distorta della realtà. Posso dire che in questi anni abbiamo rilanciato un po’ il settore scuola, ma abbiamo bisogno di iniziative e non possiamo sempre fondarci solo sul volontariato, bensì strutturarci, investire continuamente e crederci per davvero. La Federazione ha investito in un’agenzia che ci ha accompagnato, nel materiale, ma questa cosa serve che continui nel lungo periodo”.

Come vede invece Galanda l’evoluzione del movimento cestistico in Italia post quarantena?

“Bisogna capire quando e come potremo riprendere. Io sono cautelativo. Leggevo che l’OMS dice di stare attenti e non abbassare la guardia, quindi ora non possiamo scherzare col fuoco. Cerchiamo di essere rispettosi facendo ciò che possiamo fare, mettendo in campo le idee, facendo anche dei tentativi sapendo che si può sbagliare. Il nostro è uno sport di errori: basta pensare a un tiratore, che fa già un ottimo lavoro se tira col 50%. Guardiamo anche cosa farà il calcio, che si è offerto di fare il tentativo e proviamo a studiare cosa fanno loro senza massacrarli. Oggi la Serie A rischia di perdere Roma ad esempio, bisogna vedere poi quante società saranno pronte a partire a settembre o ottobre, senza pubblico o senza poter costruire la squadra. E poi c’è il problema dei confini: come si farà con gli americani? Io ho detto di pensare a dei campionati solo nazionali e mi hanno dato addosso perché dicono che penso solo agli italiani, ma se non si potesse avere gli stranieri come si fa?”.

Assolutamente favorevole quindi all’idea del Club Italia?

“Cremona ha fatto delle scelte importanti in passato, scegliendo Meo Sacchetti in un momento importante, sapendo di averlo part-time con la nazionale, facendo scelte audaci che hanno pagato. In questo momento è stata bravissima a lanciare questa idea, intanto dal punto di vista comunicativo. E’ un’ipotesi, così come ce ne possono essere altre: ad esempio chi se lo può permettere investa in chi non se lo può permettere. Io ai tempi sono cresciuto a Verona, che traeva le sue finanze dal costruire dei giovani passando poi i contratti alle grandi squadre. Adesso potremmo trovare forme diverse ma per esempio se Milano volesse più stranieri è giusto che investa nel campionato e che poi queste finanze vengano reinvestite in una Cremona che possa così far crescere giocatori che diventino di alto livello. Altra cosa che mi è venuta in mente è avere occasione di far giocare degli under veri in A, imponendo ad esempio un under 21 in campo. Facciamo un anno di purgatorio, però sicuramente faremmo fare a questi ragazzi una grande esperienza e magari ce li ritroveremmo pronti per la nazionale. Sono solo idee, poi la Federazione e il movimento si basano sulle decisioni che la Lega prende e in questo senso è giusto riconoscere a ognuno le proprie responsabilità. A me è piaciuto molto come la Lega ha dialogato sia nella gestione di Egidio Bianchi che in quella attuale con tutti: giocatori, arbitri e allenatori. Ora è il momento in cui si può azzardare”.

Punto più alto e più basso della storia da giocatore di Giacomo Galanda.

“Il più basso è quando giocavo a Verona e facemmo trasferta a Siena, dove stavamo perdendo di 20. Recupero un pallone, vado in contropiede, da solo col canestro, piede che tocca la palla che finisce sul fondo. Tacciamo oltre, una figuraccia clamorosa. Momenti belli per fortuna ce ne sono stati tanti, ma il più bello è tutta l’Olimpiade del 2004. Quando porti a casa la medaglia quella è indescrivibile, non puoi condividerla fino in fondo se un altro non l’ha vissuta. Ricordo dopo la vittoria con la Lituania che un giornalista messicano, che mi aveva intervistato nel corso della cerimonia inaugurale, rispuntò a sorpresa facendomi finire sulla tv messicana. Ecco, l’Olimpiade ti regala cose che non immagineresti mai, emozioni incredibili: come diventare l’idolo dei messicani in due secondi, anzi per due secondi (ride)”.

Aneddoti di quell’esperienza

“Bellissima la cerimonia inaugurale, ma quando sfili non vedi niente se non la parte finale. Ai tempi poi i telefonini di oggi non c’erano, quindi il bello della cerimonia lo vedeva chi stava a casa davanti alla tv. Ricordo a Sidney, dopo 6 ore e mezza di attesa prima di entrare nello stadio, sono stato anche redarguito dall’ex capo del CONI, Petrucci, perché io e Mian in fondo alla fila ci siamo messi a fare riprese con la telecamerina e ci siamo allontanati dal nostro gruppo, finendo per essere inquadrati dalla tv alla chiamata della nazione successiva. Anche lì abbiamo fatto la figura dei pirla, ma ci siamo divertiti”.

E della promiscuità olimpica cosa si dice?

“Volendo ce n’era tanta di promiscuità. A Sidney però avevamo Tanjevic che si metteva a fumare il sigaro sulla porta, quindi non c’era verso di muoversi. Poi noi avevamo un grosso senso di responsabilità, credo sia così per gli sport di squadra che durano tutta l’Olimpiade. Chi invece fa le gare i primi giorni poi si sente libero e allora può darsi alla pazza gioia. Noi no comunque. Anzi gira voce che ci fossero le pallanuotiste – che poi vinsero l’oro – che ci mettevano i bigliettini fuori dalla porta e ci diedero pure dei maleducati perché non rispondevamo mai. Il problema è che c’erano i nostri allenatori che prendevano e buttavano via tutto”.

E’ capitato però di rimanere colpiti e affascinati dalla presenza di qualche altro atleta, magari idolo di altri sport?

“Li scattano le peggiori figuracce perché magari non riconosci qualcuno e poi scopri essere un fenomeno. Torno al 2000, con quel fascino di quelle Olimpiadi dall’altra parte del mondo; e poi le prime per me. Ricordo Ian Thorpe, quando entrava lui vedevi ogni donna che impazziva. Una volta era seduto al tavolo accanto a me e vederlo li dava una sensazione incredibile. Ad Atene 2004 invece ricordo che nella famosa festa finale – quella con gli argentini di cui si è sentito parlare e su cui sono state dette tante incorrettezze, ma questo secondo me è dovuto all’alcool perché ognuno sa la sua versione – nel privé dietro di noi c’era Maurice Green (campione olimpico sui 100 metri nel 2000, ndr), che voleva venire a festeggiare con noi. Per una volta abbiamo fatto invidia a uno dei grandi. Ricordo poi Sotomayor che girava nel villaggio olimpico, altro personaggio che mi ha colpito parecchio”.